sabato 24 marzo 2012

Magis amica veritas



Gli Augias non fanno cultura, gli Augias sono «devoti della cultura», categoria cui Marc Fumaroli ha dedicato un libro decisivo, «Lo stato culturale». Per dire: Philippe Daverio fa cultura (mette brillantemente la sua competenza al servizio del mezzo), gli Augias (ce ne sono tanti) usano la parola cultura come schermo, la impregnano di un significato volontaristico e missionario (ah, quel pubblico da redimere composto materialmente e idealmente di professoresse!), la fanno diventare qualcosa di simile a un progetto mistico, a una pianificazione, a un catechismo sociale, a un gadget da servizio pubblico.
Gli Augias sono gli idoli del ceto medio riflessivo, soddisfatti di apparire credendosi un'apparizione. E, sempre cedendo all'insistenza di qualche principio superiore, usano la «cultura» con un certo dirigismo che, per altro, influenza il mercato dei libri. Vorrebbero dedicare una parte della loro vita ad altre cose, ma per fortuna poi si mettono al nostro servizio in quella vasta e sorprendente vanity fair che è la tv.
Aldo Grasso, Corriere della Sera, 21 Marzo 2012


Al piano sotto casa mia abita un signore che veste sempre di bianco e si crede il papa.

La mattina si sveglia e sorride al mondo. Si sistema seduto appoggiando il cuscino in verticale sullo schienale del letto, si stropiccia gli occhi. La figlia che lo asseconda da tanto tempo gli porta ogni mattina a letto l’Osservatore Romano e due fette di pane e marmellata di mele cotogne, che lui tanto ama sin da quando era bambino. Sorride alla figlia come un Padre, un Santo Padre. La benedice. Non prende mai il caffè perché soffre di pressione alta (anche Pietro, d’altronde si dice che avesse di tali problemi), si concede quindi un bicchiere di latte freddo. Finita la lettura va in bagno e compie i riti mattutini (si vocifera che sotto la doccia canti le canzoni di Lucio Dalla. Dio l’avrà in gloria). Quindi si veste in abito talare e si affaccia alla finestra del balcone da cui celebra la messa delle undici e impartisce la benedizione. Urbi et Orbi ovviamente.
Questo tutti i giorni.

Al piano sopra a casa mia invece abita un signore che veste sempre di nero e si crede il papa.

Non ha figli. Non ha moglie. È solo. Tutte le mattine dopo aver fatto colazione con un cannolo siciliano e della coca cola va al bagno e canta a squarciagola sotto la doccia Un papa nero dei Pitura Freska. Si commuove sempre un po’ sul ritornello. Poi si veste dei suoi drappi scuri e aspetta quieto quieto che esca sul balcone il papa del piano di sotto per fare la sua benedizione delle undici. Attende che sia bene in vista, poi gli fa un gavettone.
Questo tutti i giorni.

Non avevo mai pensato di ritrovarmi, così lontano dal colonnato del Bernini a essere condomino di due papi. La cosa un po’ mi diverte e un po’ mi turba.
Devo ammettere che il papa bianco, è bravo, è davvero bravo: nelle sue prediche parla di Amore, di Carità, di Solidarietà, di Giustizia, di Verità, e di tante altre belle cose e ogni volta instilla negli spazzini della via privata sulla quale il suo balcone si affaccia vera fede cristiana. Non so perché il papa nero ce l’abbia con lui, forse vorrebbe essere lui il papa bianco, forse è perché non ha un balcone da cui affacciarsi e benedire via pellizzone.



Quando sono arrivato in libreria, mezz’ora prima, era già tutto pieno di vecchie. Si sventolavano i loro ventagli l’una sul collo dell’altra, tutte eccitate come teenager, si dilungavano a chiedersi ossessivamente “ma cosa dirà, ma cosa dirà? Oh come mi piace…è tanto bravo, tanto..:”. Poi immancabilmente il discorso finiva sul nipote che non riesce a laurearsi o che si sta laureando (“Ah sul serio? Complimenti. Complimenti a lei, signora. No, complimenti a noi, signorissima”) o che vorrebbe laurearsi ma intanto soffre perché non troverà il lavoro quando lo cercherà se si laureerà e quindi non si sposerà e non figlierà e lei non nonnerà e quando andrà all’aldilà felice non sarà. O variazioni sul genere tipo la cucina e il tempo.
E il tempo libero? Per adesso son giunte tutte là a stormi a ascoltare Corrado Augias.

Appena apre bocca, anzi no, appena fa la a comparsa in libreria, ben vestito, spettinato in maniera pettinata, con la sua parlata ordinata, pulita, elegante, con le sue citazioni ordinate, sapienti, conturbanti, con il suo nuovo libro di nuovo editore, colore, sapore, ecco già quando lo vedo salire sul palco me ne accorgo:



è lui il papa bianco.



[Questa volta l’intervista audio non mi è stata concessa per problemi di tempistica, dovendo il signor Augias prendere un aereo per Roma. Comunque mi ha dato modo di contattarlo successivamente e gentilmente ha trovato il tempo per rispondere alle mie domande. Lo ringrazio nuovamente]

D: Nei suoi libri precedenti lei si è confrontato con la religione del Cristianesimo e con l’istituzione della chiesa cattolica; in questo affronta il tema della libertà e della coscienza civile degli italiani. Può descriverci in cosa consiste secondo lei la continuità della sua ricerca personale?
R: Per rispondere alla sua domanda devo prima parlare di un episodio che  racconto anche nel libro: nel 1993 il giornalista Pino Nicotri, in una mirabile inchiesta (Tangenti in confessionale), fingendosi un affarista pentito in piena crisi spirituale e morale dopo essere stato pesantemente coinvolto nei processi di tangentopoli, andò in alcune delle più importanti chiese italiane, portandosi dietro un registratore. La domanda cruciale che rivolgeva al confessore era se dovesse collaborare o meno con la magistratura inquirente. Nonostante il cardinal Martini (sant’uomo!) avesse recentemente esortato tutti coloro che erano stati coinvolti in tangentopoli a collaborare con la giustizia, la risposta del confessore era quasi sempre orientata in senso opposto, formulata in termini che sottolineavano la priorità del pentimento privato su quello pubblico. Un confessore nel duomo di Milano (quindi nel cuore del vescovado di Martini) gli disse “io se fossi in lei non mi presenterei”. Ma ci pensa? Un pastore di anime!Un altro, nella chiesa di Sant’Ambrogio: “Nessuno è costretti a tradirsi. Non mi pare che sia veramente il caso”.
Ecco, capisce qual è il filo rosso della mia ricerca? Ci sono delle zone grigie delle quali trovo sia giusto parlare e credo sia fondamentale riuscire entrare nel cuore delle ipocrisie, provare a comprenderle, analizzarle e lasciare che sia il lettore a portare a compimento la riflessione. Nell’affrontare l’istituzione del Cristianesimo o la coscienza civile degli italiani mi sono sempre posto come obiettivo di fondo quello di far emergere la verità.

D: L’Italia è secondo “Freedom House al quarantesimo posto nella classifica mondiale sulla libertà di stampa, dietro a Cile, Benin e Namibia; altre classifiche ci mettono al sessantanovesimo posto mondiale per quanto riguarda la corruzione e addirittura all’ottantasettesimo per  l’occupazione femminile. Non è questa la radiografia di un paese che civilmente appartiene al sottosviluppo? Non è che da troppo tempo viviamo nell’illusione che loro malgrado ci hanno regalato dei geni isolati (da Dante a Leonardo da Vinci a Caravaggio a Enrico Mattei a Giulio Natta a Piero Gobetti a Lorenzo De Medici a Camillo Benso di Cavour)? Non crede che da sempre siamo molto distanti rispetto allo status che l’arte, la cultura e lo sviluppo economico ci hanno educato a pensare nostro?
R: Sono in parte d’accordo, anche se trovo la sua conclusione un po’ eccessiva. La questione è complessa e ho provato a dipanarla nel mio libro: il paese viene da 18 anni di governi Berlusconi in cui l’istituzione democratica è stata presa d’assalto da tutti i punti di vista e 18 anni non sono pochi. Però bisogna stare attenti: la democrazia è anche uno specchio e il rischio è che quelle fattezze grottesche che va riflettendo siano davvero le nostre.  Quanto Berlusconi ha riflettuto l’Italia? Cosa inquadrano quelle statistiche che lei ha citato? Inquadrano senz’altro una situazione di estrema precarietà dei diritti civili che è due volte figlia nostra: in quanto cittadini e in quanto elettori di governi che non hanno fatto altro che tollerare e quasi stimolare il nostro peggiore malcostume. Allo stesso tempo penso però che il paese sia ricco di risorse e credo sia in grado di reagire a questi 18 anni di sonno della ragione e di mostri.
Ciò a cui non so rispondere è quanto possa volerci per uscire dal baratro civile in cui siamo piombati;  anche perché io non sono uno di quelli che crede che non rivestendo più alcun ruolo istituzionale, Berlusconi abbia desistito dal desiderio di riuscire a influenzare ancora i futuri governi per fare il proprio utile. Ha troppi interessi in Italia per potersi ritirare.   

D: Lei si è espresso più volte e in più occasioni sulla libertà di espressione e di informazione. Riguardo a tale tema non bisogna dimenticare come oggi la diffusione e la sopravvivenza di un organo di informazione siano soggette alla legge del mercato. Pensiamo al caso de Il manifesto: non crede che la chiusura di un giornale sia di per sé una perdita per la libertà di stampa di un paese? È davvero più giusta una dimensione completamente liberista in cui, come vuole Beppe Grillo e il “Movimento 5 Stelle”, senza i finanziamenti statali i giornali devono pensare in primis alle vendite per sopravvivere? Il rischio non è un appiattimento dell’informazione?
R: E’ una situazione delicata, anche perché di per sé Il manifesto è un giornale abbastanza anomalo nel panorama dell’informazione. Il problema dei finanziamenti statali è emerso come tale perché non siamo riusciti a gestire la cosa nel modo in cui un paese civilmente maturo dovrebbe. Io non credo che i presupposti di tale finanziamento siano sbagliati: sono stati i criteri che lo regolavano ad aver generato l’indignazione dei cittadini. Credo che l’opinione pubblica possa avere solo dei vantaggi dal coesistere di un numero elevato di testate; allo stesso tempo  non si può in questo modo giustificare la pioggia di denaro pubblico che in passato è caduta su organi di partito come Il campanile dell’UDEUR di Mastella. Ecco, credo che quelli che sono giornali di partito debbano trovare modi alternativi per autofinanziarsi, e orientarsi a spostare sempre più la testata sul web così da evitare almeno i costi di stampa. Il caso de Il manifesto è diverso e io credo che testate con una storia come quella non possano chiudere dall’oggi al domani. Ho molto apprezzato l’appello che hanno rivolto ai propri lettori per aumentare le vendite; ma non credo che lo Stato sia in questo momento nelle condizioni per potersi esporre così tanto per un giornale così dichiaratamente di sinistra. Non so neanche loro a quali condizioni accetterebbero aiuto, conosco la direttrice e mi sembra una donna di grande responsabilità e fermezza.

D:Una fede religiosa comporta anche la sottomissione sia a un’autorità divina che a un’autorità istituzionale, rappresentata da un clero che si fa mediatore del rapporto collettivo con la divinità. Lo spazio della libertà religiosa del singolo non può non ritrovarsi quindi a essere ridimensionato laddove egli scelga l’adesione a un credo istituzionalizzato e gerarchizzato. Come pensa che tale impostazione possa influire sulla coscienza civile di un cittadino e sulla sua concezione della libertà? Come pensa che tutto ciò abbia avuto rilevanza nel successo di personalità politiche fortemente autoritarie in Italia?
R: Sull’argomento della libertà personale all’interno di un culto organizzato sono secoli che si disputa, pensi solo alla difficoltà del conciliare una divinità onnisciente e onnipotente con il concetto del libero arbitrio o a tutte le discussioni sull’origine del male; già Agostino si chiedeva “Unde malum?” e già Dante aveva messo in bocca a Marco Lombardo nel canto XVI del Purgatorio una dissertazione sul libero arbitrio. Quindi come vede è un problema di vecchia data che la comunità cristiana non è ancora riuscita a risolvere del tutto. Il rapporto chiesa-potere è anch’esso di vecchia data e credo che gli orientamenti e le prese di posizione politiche dei vari papi e vescovi e la loro vicinanza ad uno schieramento politico o la loro lontananza abbiano contribuito a plasmare una certa forma mentis nell’italiano: tutte le volte che l’interesse contingente si è scontrato con l’anima del messaggio cristiano e il primo ha avuto la meglio sul secondo, i fedeli italiani hanno perso un pezzetto di libertà nel loro modo di concepire il reale e, qualora si siano adeguati senza alcun ripensamento, anche un pezzetto della loro coscienza civile. Nel mio libro c’è tutto un capitolo dedicato a questo argomento e sulla questione della doppia morale.

sabato 10 marzo 2012

Fenomenologia di Marco Travaglio



In primis, un libro.

La copertina in brossura dà da subito un senso di decorosa umiltà: come sfondo tre rettangoli di colori diversi di dimensione decrescente dall’alto verso il basso, schiacciati dall’enorme titolo bianco che sembra voglia saltare fuori dalla copertina e venirti a palpare le tempie, gridando “NON VUOI LEGGERMI???? LEGGIMI!!!!”, anch’esso a caratteri decrescenti (la prima parola nel rettangolo più grande, la seconda in quello di dimensioni minori, il sottotiolo e la firma degli autori, in corsivo, in quello più piccolo). Sono 912 pagine.
Novecentododici.
Un oggettino simpatico.
Questo è come appare Mani pulite: la storia vera vent’anni dopo. Un mattone che ha come soggetto una indagine giudiziaria, i commenti attorno a essa, il suo svolgimento e ciò che ne è conseguito, raccontata attraverso numeri e atti processuali.

Credo che ne abbiano venduti solo il giorno della presentazione una cinquantina in un’ora.
Ecco, è da qui che vorrei partire: tutte quelle persone che erano lì e hanno comprato quel libro – e le altre cento che c’erano credo che non lo abbiano acquistato esclusivamente per esaurimento delle copie – non erano alla Feltrinelli Express della stazione centrale di Milano semplicemente per comprare un libro. Erano lì per una ragione molto diversa: il presenziare a un rito.

Dal fondo della sala, mentre dietro a un cordone di sicurezza si agita una pappa umana di un centinaio di persone, si manifestano tre figure. Sono uscite dall’ascensore accolte allo stesso momento dal campanello del piano e da un grido strozzato di felicità. Il miracolo è avvenuto: la trinità si è consustanziata come promesso. Salutano a mezza bocca e si dirigono verso il centro del locale: il loro linguaggio del corpo vuole comunicare professionalità, integrità e determinazione. Salgono sul palco, sorridono: il rito ha inizio.
Non mi interessa qui parlare di Peter Gomez, che professionalmente è quello che stimo di più, né di Gianni Barbacetto (che, poverino, non è stato quasi degnato di uno sguardo dalla massa dei fedeli: nessuno gli ha chiesto uno sputo di autografo, scarsi perfino gli applausi al suo intervento. Non erano lì per lui e glielo hanno voluto far notare), mi interessa invece un’analisi approfondita della forma di Marco Travaglio.
Non affronterò i contenuti dei suoi interventi, ma il modo in cui egli le porta avanti, cosa che credo essere fondamentale nel successo del suo personaggio e nella creazione di una vera e propria chiesa di seguaci che serba nei suoi confronti una riverenza quasi sacrale, sicuramente non paragonabile a quella di qualunque altro giornalista vivente (Santoro compreso) e superiore a quella di molti politici. Il mio scopo è in definitiva di mettere in luce e affrontare l’innegabile virtù dell’actio di Travaglio, complice, a mio pare, del senso di affidabilità che i suoi articoli e le sue apparizioni televisive riescono a produrre nei suoi sostenitori e dell’aura ieratica che lo ammanta.
La prima cosa da notare è la routine dei movimenti, da attore: Travaglio replica da anni una stessa serie di azioni con costanza tale da essere riuscito a renderla caratteristica e identificatrice. Tale scelta oltre a far percepire con maggiore incidenza la sua presenza “scenica” –non a caso è nelle sue apparizioni a teatro, ancora prima che in televisione, che riesce a eccellere- e quindi a mediare immediatamente nello spettatore un sentimento di appagamento per il trovarsi di fronte al proprio idolo (“è proprio lui, è proprio lui”, è la reazione inconscia al riconoscimento dei tratti caratteristici), lo mette a proprio agio e lo invita a fidarsi e a sentirsi confortato dalla persona che ha davanti a sé.
Tipico, specie nelle presentazioni più informali, è il suo togliersi la giacca: la camicia (solitamente bianca) è infatti uno dei tratti che lo identificano e che non a caso ama più esporre per mostrarsi umile e elegante allo stesso tempo. In altre situazioni –quasi sempre a Anno Zero o in televisione- utilizza una giacca, ma anche qui la sua preferenza va verso tessuti semplici e colori autunnali molto modesti: la sua mise canonica è quella con la giacca verde “smorto” che ha indossato nella sua memorabile apparizione al Satyricon di Daniele Luttazzi, giacca verde  che ricorda nello spettatore ciò che appunto egli è stato e propone quindi un messaggio di coerenza e integrità.
In ogni caso, giacca o non giacca, è solo quando raggiunge la sedia che Travaglio inizia davvero a fare sul serio: la sua più grande abilità è quella di riuscire a ridurre i movimenti al di sotto dell’essenzialità e a raggiungere con questo minimalismo una maggiore carica espressiva. Tali movimenti sono raggruppabili in due grosse tendenze: attesa (o ascolto) e offesa (o declamazione). Nella prima situazione è un altro a prendere la parola, a parlare, a svolgere un ragionamento intorno a un punto, ciò nonostante in questa fase Travaglio non rinuncia alla comunicazione: le gambe sono incrociate l'una sull'altra, le mani si uniscono sopra al ginocchio con il quale fa oscillare leggermente il piede della gamba accavallata, le spalle sono tese per permettere questa postura. La testa e lo sguardo, unici, sono fissi: rivolti verso chi sta parlando, se è egli è un avversario o se non è d’accordo con ciò che sta dicendo; gelidamente bloccati a fissare un punto a mezza altezza se la cosa non gli interessa o se ritiene che lo si stia citando o chiamando in causa. Con questo atteggiamento di attesa, appunto, Travaglio cerca di comunicare allo spettatore una dignità e una professionalità che vuole essere tanto più convincente quanto appare sguaiata o urlata quella del personaggio a cui è contrapposto (il mondo di Travaglio “in scaena” è manicheo, vive di contrapposizioni – che poi possono pure scomparire o attenuarsi, ma questo solo dietro le quinte-; nemici canonici, o comunque coloro che emergono come tali dalle trasmissioni televisive e negli articoli, sono in ordine sparso: Filippo Facci, Maurizio Belpietro, Pierluigi Battista, Andrea Capezzone, Vittorio Sgarbi, Daniela Santanché, Alessandro Sallusti, Cuordipietra Famedoro). Tale passività riesce inoltre a  suggerire la volontà di scagliarsi all’attacco, di ribattere parola per parola le parole dell’avversario parolaio, allude a come siano in serbo chissà quante e quali risposte da servire con la mano sinistra, sogghignando a denti stretti (questo sia nel caso che prenda la parola, sia nel caso poi non la prenda). Nella fase di attacco, Marco Travaglio mostra tre diversi atteggiamenti: la risata di scherno, volta a stimolare la stessa reazione nello spettatore (a essa possono essere aggiunti movimenti con le mani come a dire “ma pensa te, ma guarda un po’ questo”); l’indignazione, che si produce con rapidi movimenti agitati del corpo, inarcamento delle sopracciglia e rotazione degli occhi; e infine la requisitoria. Quest’ultima è quella più popolare, perché è quella con la quale porta avanti i suoi editoriali televisivi nelle trasmissioni di Santoro, ma è usata anche durante le presentazioni. Oggetto fondamentale per la requisitoria è il supporto di lettura, libro o foglio di carta (che deve essere ben percepibile e tradizionale; quindi nessun tipo di I-Pad o simili, al massimo un vecchio cellulare), la consultazione del quale aumenta la solidità e l’autorevolezza di quanto viene pronunciato (il messaggio per il pubblico è: questi sono dati scientifici, inoppugnabili, inattaccabili, a voi sconosciuti fino al momento in cui io ve li ho rivelati, li ho sotto mano proprio in questo momento. Carta canta). Esso viene tenuto con ambo le mani, le quali restano in questo modo ferme (esse sono utilizzate solo come commento di qualche battuta o per “creare” un applauso). I suoi movimenti, seppure scarsi o apparentemente assenti, sono il risultato di una strategia comunicativa molto fine che mira a valorizzare ciò che viene detto e che carica il discorso di messaggi persuasivi che influenzano in maniera decisiva la ricezione delle sue affermazioni.
Anche la mimica facciale è utilizzata in tal senso. In questo caso va sottolineato in primis il movimento autoassertivo che compie soprattutto durante i passaggi televisivi: nei suoi editoriali a Servizio Pubblico è molto facile notare un leggero dondolio della testa, volto a convincere lo spettatore della verità di ciò che sta dicendo. Con esso, Travaglio viene così con un unico movimento ad affermare a sé stesso e al pubblico la verità della propria parola e allo stesso tempo utilizza questo stratagemma per dare ritmo al discorso (massimo è l’utilizzo di tale stratagemma durante le battute, come offrendo un supporto in più al pubblico per la loro risata). Oltre a ciò, Travaglio sfrutta anche lo sguardo -e in particolare la maggiore o minore apertura degli occhi e l’inclinazione delle sopracciglia-  per convincere lo spettatore: stupore o indignazione, sarcasmo o dubbio reale, smarrimento o rabbia, tutte le reazioni che egli sceglie di incarnare attraverso la propria mimica facciale, vengono esternate, esternando così anche lo stimolo a quella che è la reazione desiderata nel pubblico. È un vecchio stratagemma del melodramma e del cinema melodrammatico: viene mostrato sulla faccia dei protagonisti e messo ben in evidenza quello che si suppone essere la reazione suscitata in chi guarda; serve a creare pathos e a stimolare la comprensione e l’appoggio dello spettatore che si identifica in lui.
Altro punto fondamentale è il già menzionato utilizzo del ritmo. Qui Marco Travaglio è un vero fenomeno: la sua recitazione è un mirabile utilizzo di pause, impennate, rallentamenti, sottolineature vocali; egli riesce attraverso una modulazione ritmica a portare avanti una tesi mostrando il contenuto e nascondendo dietro a esso lo stile che lo contiene e che rappresenta il vero motore del consenso. Il suo marchio distintivo è il “fulmen in clausola”: la battuta, il gioco di parole inatteso, il paradosso, tutti questi stratagemmi del comico sono dosati in maniera eccellente e esplodono solitamente al termine di un capoverso del suo editoriale. Le parole devono venire scandite in maniera rapida ma precisa, e devono farlo seguendo un movimento che alterna monotonia (e monodia) a picchi di intensità: la prima domina le parti del discorso che si vogliono più oggettive, inattaccabili e “noiose”: i dati, i riferimenti e le sentenze; i secondi si verificano in occasione delle battute. Rallentamenti minimi e una maggiore ritmicità dell’eloquio si hanno laddove egli utilizza in maniera antifrastica e ironica le parole di qualcuno con la volontà palese di ridicolizzarlo. Anche l’utilizzo del ridicolo infatti risponde a una esigenza di potenziamento della propria figura: distruggendo gli altri, Travaglio si erge come fine umorista (al di là di esserlo o meno) e abile pensatore, in grado di schiantare al suolo nel ridicolo chiunque voglia solo con l’effetto delle proprie parole. Non è strano udire dalla sua bocca un uso molto disinvolto del vituperio, della caricatura, dell’appellativo, della canzonatura che parte dai difetti fisici, del nomignolo, strumenti classici della parola comica corrosiva, che però nascondono, come insegna Freud, un’esigenza di attaccare per non essere attaccato. E di acredine se ne avverte molta in alcune di queste battute, nelle quali spesso vuole dimostrare un’ulteriore superiorità (e rinsaldare il legame con il proprio pubblico, in grado di cogliere senza problemi tutte le allusioni personali) e una ulteriore autoaffermazione, non nominando neppure il riferimento, come a negare allo spernacchiato anche la dignità del proprio nome: il mashato, Angelino Jolie, Polito El Drito, e così via.
Vorrei concludere questa breve rassegna delle capacità formali dell’attore Travaglio con quella che secondo me è la caratteristica principale del suo successo: la sua sensualità. Travaglio è sexy. Lo è sia per doti naturali che per modo di proporsi, ed è questa, credo, la ragione principale delle folle oceaniche che lo vanno a vedere (non a ascoltare) parlare. Sull’uno e ottanta, brizzolato, capelli ricci che non mostrano evidente stempiature, magro e tonico, occhi azzurri cristallini e profondi, due lame: un fascino maturo che sprizza sensualità a ogni ammiccata, a ogni risatina, a ogni abbassamento di ciglio ( e sono molti). Travaglio non vende i libri, vende se stesso. Sempre. Anche dietro ai suoi editoriali cartacei, vedi il suo corpo, lo immagini nudo, ti cibi di lui. Se il Verbo si è fatto Carne, con lui è la Carne a farsi Verbo: è la Carne che prende la parola e celebra la propria fisicità. Ecco perché quelle presentazioni di libri e quelle apparizioni televisive, assumono costantemente la forma della Messa: masse di persone (non a caso più donne che uomini, ma ciò non cambia, egli in realtà è sex symbol per entrambi) con la bava alla bocca, in preda all’eccitazione, all’erezione, con le mutandine bagnate, pronti a applaudire, a urlare, a ridere, a fare tutto ciò che è necessario fare per compiacerlo, per compiacere il loro oggetto del desiderio. L’incomunicabile oggetto del desiderio. Lui li osserva esplodere nel loro eccitamento e inizia anche lui a godere, esplode, si fa tonante, ride Omerico del loro e del proprio piacere. È un’orgia. Egli è allo stesso tempo il bravo ragazzo della porta accanto, l’uomo elegante e brillante che ti tromba dopo averti sedotto, portandoti a cena in un locale “giusto”, il genietto simpatico dalla battuta azzeccata, l’intellettuale impegnato  – ma senza colore politico – che ti rivela le verità che non conoscevi, l’illuminista che lotta contro il male e ti conduce fuori dalla caverna, Voltaire e George Clooney assieme; e il tuo labbro, le tue labbra, pendono sempre più giù, cadi ipnotizzato-a; compreresti tutto da lui, perfino un libro che non leggeresti mai.

La mia trattazione di queste sue qualità è senza dubbio insufficiente, ma un’analisi più approfondita avrebbe richiesto maggiore spazio. Ho voluto solo accennare a alcuni aspetti di quella che ritengo essere una meravigliosa macchina retorica, un vero fenomeno della recitazione, un genio teatrale appena disceso dal carro di Tespi. Un giornalista, vero, anche un giornalista; con le sue abilità, le sue tecniche e il suo stile. Ma è appunto proprio il suo stile che lo ha trasformato in quello che egli è, non come ci si illude di pensare, il suo “raccontare i fatti”, non il suo “archivio”. Anche quello, certamente. Ma la chiave del successo dell’uomo, ciò che lo ha portato a essere celebrante e celebrato di un rito laico, non va dimenticato, risiede in queste abilità e nella sua strategia persuasiva. Non c’è niente di male in questo, ma va ricordato. Credo serva a qualcosa, credo serva almeno a questo: a mantenere la lucidità, a non finire come un fedele acefalo con gli occhi a spirale e le mutandine bagnate; a non uscire dalla stazione centrale di Milano con un mattone di 912 pagine in mano che non riuscirai mai a leggere e 19 euro e sessanta in meno, interrogandosi sul perché.