giovedì 16 febbraio 2012

Al bar del Sardo





Ascolta l'intervista a Peter Gomez:



Ogni mattina da tre anni a questa parte vado a prendere il caffè al bar del sardo vicino all’università. Ogni mattina alle 07.55 in punto sono lì e ogni mattina seduti al bancone stanno tre ubriachi.
Uno è abbastanza giovane, avrà 32 anni, capelli scuri, occhiali a fondo di bottiglia. Tutti i giorni quando arrivo lo trovo che ripete a se stesso “fannotuttischifofannotuttischifofannotuttischifofannotuttischifo…” A fianco a lui c’è uno che avrà 60 anni o giù di lì, capelli ricci arruffati, barbetta bianca; tutte le mattine quando arrivo lo trovo che ripete a se stesso (o a quell’altro, non ho mai capito): “lacrisilacastalacrisilacastalacrisilacasta…” Il terzo c’avrà 75-80 anni, è sempre in giacca, gilè e papillon, lo chiaman tutti professore; ecco, tutti i giorni quando arrivo lì, lui sta ripetendo sottovoce a un bicchiere di bonarda: 
“ridammifanfaniridammiandreottiridammifanfaniridammiandreotti…”. 
Tutti i giorni così.
La mattina dopo il giorno delle dimissioni di Berlusconi sono andato al bar con il Corriere sotto braccio. Loro imperterriti:
“fannotuttischifofannotuttischifofannotuttischifofannotuttischifo..”
“lacrisilacastalacrisilacastalacrisilacasta…”
“ridammifanfaniridammiandreottiridammifanfaniridammiandreottiridammifanfaniridammiandreotti…”
Allora ho tirato fuori il giornale e agitandoglielo sotto il naso ho detto:”Oh, l’avete sentito che è caduto il governo? Adesso fanno Monti presidente del Consiglio! Era ora, no?”
I tre son rimasti in silenzio. Si sono voltati all'unisono a guardarmi; quindi si sono guardati in faccia l'un l'altro; quindi si sono nuovamente voltati verso di me e a turno hanno detto:
“E’ morto il re”.
“Evviva il re.”
“Sputate al re”.
Dopo di che hanno ripreso con il loro solito tran tran, come se nulla fosse successo.

In fondo al bar del sardo la mattina è facile trovarci un tipo basso basso, scuro scuro, che si mangia un’arancia.  Non so come si chiami. Non alza mai la testa, sta sempre lì a pelare la buccia della sua arancia pezzo a pezzo; ha un libro davanti a sé ma quasi non lo guarda. Ci ho parlato solo tre o quattro volte, per caso. La prima volta, io me ne stavo tranquillo al bancone a farmi riempire le orecchie dal sardo con chiacchiere a vuoto (a non rendere) mentre cercavo di prendere a sberle di caffeina quella mattina inutile, quando lui a un tratto mi punta il dito contro e mi dice: “Ma lei non sarà mica uno di quei deficienti che si fanno la foto da soli con in mano un foglio a quadretti strappato dal quaderno di matematica delle medie con su scritta una roba tipo 'io difendo la libertà di informazione?' Si, si, lei è uno di quelli, ha la tipica faccia da deficiente. Si vede a occhio. Non che io abbia niente in contrario, eh. Fate, fate pure. Tanto io resto della mia idea. Come tutti. Vede, io credo che la questione sia un po' sopravvalutata: a me ad esempio la libertà di stampa sta bene solo se è libertà dalla stampa, guarda un po'!'”.
Io ho pensato ma che vuole questo qua, ma che viene fare il filosofo con me? ma che sono qui per stare a sentire queste scemenze qua? ma chitteconosce, ma io boh, ora gli tiro la tazzina del caffè in testa così se ne sta zitto. Se hai da smaltire una sbronza il mondo è pieno di martelli per acciaccarti le dita. che poi a me l'odore della sua cavolo di arancia dà pure fastidio. ma pensa te.
Invece gli ho detto: “Ah. Bene. Buona giornata.”
Un’altra volta invece mi ha detto “guardi , la grossa differenza fra me è lei che io ho il coraggio di rendermi sgradevole. Io detesto un sacco di cose, davvero, detesto pure la nazionale azzurra. Però, vede, io lo dico, lei no. A me non me ne fotte niente del Ruanda, però lo dico. A lei pure non gliene fotte niente, però non lo dice. Questa è la differenza.
E io ho pensato, ma guarda questo qua, ma  che vuole da me, ma io gli tiro una padella, ma chi ti conosce, ma chi ti ha detto che voglio sapere quello che pensi te, nano scemo del ciufolo, ma che sarai mica pure fascista? Ma che sono il prete confessore che devo ascoltare qualunque coscienza con il mal di testa? ma pensa te.
Poi però non ho detto niente di tutto questo. Invece ho detto: “Ah. Buona giornata.”
Un’altra volta mi ha preso da parte e mi fa: “vedo che lei legge i giornali, bravo, bravo…lei crede di informarsi, mh? Ma non lo sa che l’informazione informa i fatti, non sui fatti?  I fatti non accadono mai…Non conta mica la veridicità del fatto, come crede lei. Tsk. Quello che importa è solo il convincimento che un fatto, vero, verosimile o palesemente inventato,  riesce a raggiungere. I fatti di per sé non servono a niente…”
E io allora ho pensato no ma questo proprio con me ce l’ha? ma non è che ci sta provando? ma io gli tiro una zuccheriera, così lo faccio stare zitto per un po’, ma quanto chiacchiera, ma che siamo a Montecitorio, eh? ma che sono una caritas per chi non ha niente da fare? Che c'ho scritto in testa 'Bacheca per i consigli ai giovani'? ma pensa te.
Però poi non ho detto questo, invece ho detto: “Ah”, e me ne sono andato a casa.

Quella stessa sera sono andato di nuovo alla Libreria Popolare di via Tadino: c'era la presentazione di Guerra e Pace, il nuovo mattone russo che la Mondadori sta cercando di sbolognare sul mercato. Io non l'ho letto però me ne avevano parlato bene. Solo che una volta lì ho scoperto che ero arrivato un po' tardi. Come tardi? Eh, l'autore non c'è. Come non c'è? Non c'è. Ma a che ora era l'incontro? No, non ha capito, non c'è più fisicamente: è morto. Morto? Da 100 anni. E' stata una cosa improvvisa. Eh si. E chi c'è stasera? Stasera c'è Peter Gomez. Buono? Ottimo. Va bene, proviamolo, me ne porti un piatto e un mezzo litro del rosso della casa. Subito signore. 
Oh, questo Gomez era proprio bravo! Me ne sarei presi due piatti volentieri però volevo rimanere leggero perché  il giorno dopo avevo lezione presto. Ho scoperto che è pure direttore de www.ilfattoquotidiano.it. Sarà stato il lambrusco, tutte le chiacchiere della mattina con il tipo basso basso, non so; però avevo un po' di domandine che mi frullavano per la testa e allora ne è venuta fuori questa breve intervista:
“Per come la vede lei c’è solo un modo giusto di fare informazione o la verità, che è l’obiettivo di ogni ricerca giornalistica, può essere rincorsa in modi diversi? Facendo una citazione illustre : Elio Vittorini scrisse a Mario Alicata su Il Politecnico che ‘la cultura cerca le verità e la politica se volesse dirigerla non farebbe che tentare di chiuderla nella parte già trovata della verità. Soprattutto non vorrebbe lasciarla sbagliare, e l’errore è necessario pungolo alla cultura perché si rinnovi’. Condivide questa frase? La si può applicare anche al metodo giornalistico?”
Peter Gomez: “Guarda, io sono molto più cronista. Bisogna ricercare i fatti, verificarli e presentarli se sono verificati. Quelle che sono ipotesi si presentano chiaramente come sole ipotesi, il nostro compito è ricercare la verità ma più che altro raccontare le cose giorno per giorno per quello che accadono, sapendo di non avere sempre la verità in tasca. Quello che oggi sembra in un modo, domani potrebbe dimostrarsi in un altro modo, non bisogna mai trarre conclusioni affrettate.”
“Dalle pagine del vostro quotidiano si levano spesso attacchi a quelli che voi definite ‘giornalisti servi’; lei proprio non crede alla loro libertà di coscienza? Crede che la loro sia solo una scelta di convenienza? Penso anche a giornalisti anche con posizioni interessanti in quello che è il panorama della ‘destra’, come Facci o Cruciani…”
PG: “Mah, c’è caso e caso. Ti dico delle esperienze personali: finché non è scoppiato il caso ‘Betulla’, io pensavo che quello che conosciamo come Betulla fosse semplicemente una persona che la pensava in maniera differente da me. Poi abbiamo scoperto che prendeva dei soldi. (si riferisce al giornalista -attualmente anche deputato-  Renato Farina, il quale, in seguito a un indagine della magistratura, ha ammesso di aver collaborato, quando era vicedirettore di Libero, con i servizi segreti italiani, fornendo informazioni e pubblicando notizie false in cambio di denaro. Per questo episodio è stato radiato dall'Ordine dei Giornalisti, anche se in seguito la Corte di Cassazione ha annullato tale provvedimento, N.d.A.). È a caso a caso, non si può generalizzare. Anche questa cosa dei giornalisti di destra, eccetera…a destra ci sono anche degli ottimi cronisti. Poi è legittimo avere la propria opinione sul mondo…io non penso che tutti quelli che la pensano in maniera diversa prendano dei soldi perché altrimenti loro stessi sarebbero autorizzati a pensare il contrario di qualcun altro. Certo, non è un bel mondo…ma non è un mondo fatto di giardinieri”.
“Spesso la cronaca nera è usata da alcuni giornalisti per nascondere vicende politiche. Pensiamo ai plastici di Bruno Vespa. Ecco, cosa dovrebbe fare un buon direttore di giornale di fronte a un caso come Ludwig, sopratutto fin tanto che gli assassini sono a piede libero? Non raccontare? Lasciare la notizia in quindicesima pagina o più giù?”
PG: “No, no, raccontare e raccontare con ampio spazio, raccontando tutte le notizie che i suoi cronisti sono in grado di trovare. Non dimentichiamoci che il dovere nostro di giornalisti è raccontare i casi che interessano la gente. Il problema di Bruno Vespa non è che lui abbia raccontato con decine e decine di particolari dal servizio pubblico una serie di delitti, da Cogne a quant’altro; il problema è che non ha raccontato il resto. La cronaca nera è un giornalismo assolutamente di serie A e deve finire anche in prima pagina. Noi dobbiamo pensare che da una parte abbiamo il dovere di informare su tutto ciò che interessa la gente e che dall’altra abbiamo un altro dovere, di pagarci i nostri stipendi e mantenerci i nostri giornali. Quello che fa vendere i giornali non è necessariamente ignobile, dipende come li affrontiamo gli argomenti.”
“Un gran numero di persone guarda alla rete come a uno spazio libero, un luogo in cui trovare le verità oscurate dai mezzi di informazione tradizionali, un terreno al di sopra degli ordinari schieramenti ideologici e politici. Umberto Eco e altri intellettuali hanno invece invitato a maggiore cautela, ricordando come in Cina internet sia al contrario strumento di potere censorio e di controllo e mostrando come nella molteplicità delle opinioni e dei siti sia divenuto sempre più difficile capire di chi fidarsi e riconoscere la verità. Lei in quanto giornalista e direttore del sito internet di un giornale, come si pone in questo dibattito?”
PG: “In Cina c’è un problema di censura, ma che riguarda tutti i media. Nonostante la censura che c’è in Cina, milioni di persone che ne sono in grado riescono in parte a sfuggirvi perché internet permette a chi ha le conoscenze tecnologiche adeguate forme di navigazione anonima e forme attraverso le quali si può entrare in collegamento con altre persone non riducendo a zero, ma riducendo al massimo tutta una serie di rischi. La posizione di Eco e di altri intellettuali è sicuramente vera, ma equivale a quello che accade in ogni edicola ogni giorno, non tutti i giornali fanno buona informazione e c’è un sacco di gente che è convinta che invece il giornale che legge faccia dell’ottima informazione. C’è una tendenza da parte di alcuni strati di cittadini a scegliere quel media e quelle voci che gli raccontano quello che vogliono sentirsi raccontare. In rete c’è la possibilità, se ben sfruttata e se ci si fa garanti dell’informazione con la propria credibilità che non si conquista in un giorno, c’è la possibilità di far passare dei messaggi diversi. Cero c’è ancora gente che è convinta che Bin Laden non c’entri con le due torri, e questo è stato frutto di informazioni…non false…ma non complete diffuse dalla rete. È per quello che il giornalista professionista e onesto sa cogliere o deve saper cogliere qual è il particolare e sapere concatenare i particolari fra di loro per poter dare un senso al quadro completivo e certe volte non riuscendoci. Lo sforzo che cerchiamo di fare noi a Il Fatto Quotidiano è di aprire nel sito internet, tenendo separati  i fatti dalle opinioni, una platea di blogger più vasta possibile con anche idee politiche o convinzioni diverse tra di loro, così che  a poco a poco i cittadini possano cominciare a apprezzare quello che di buono ti può dire anche quello considerato un avversario o ideologico”.

A casa mi sono fatto una pasta aglio e olio. Sul primo davano Radio Londra. Mentre lo guardavo non ho pensato a quello che mi ha detto Gomez, non ho pensato a quello che mi aveva detto il tipo basso basso del bar, e nemmeno a quello che andavano ripetendo i vecchi. Tutto quello che ho pensato è stato che il grassone ha degli occhi azzurri bellissimi e che poter veder un ciccione seduto a una scrivania rotante che  parla per cinque minuti di quello che gli passa  per la testa è davvero una cosa bellissima, e chi non è in grado di capirlo è già sconfitto.

martedì 14 febbraio 2012

Ludwig, Gott Mit Uns?


Ascolta l'intervista a Monica Zornetta:



Quando prendo in mano il libro la prima cosa che noto è la faccia dei due ragazzi: giovani, 24, 25 anni, ma potrebbero essere anche di meno; capelli lisci lunghi, volto pulito, connotati quasi efebici l’uno; capelli crespi, un accenno di barba, lo sguardo perso, l’altro.

Dove sono ora quelle facce? Le persone che le indossano sono le stesse? Cerco su internet. Quando trovo le prime immagini la sorpresa è notevole: Marco Furlan e Wolfgang Abel sono ora dei vecchi. Molto più dei 51 e 52 anni che segnano le loro carte d’identità. Più vecchi di Mario Capanna. Più vecchi di Renato Curcio. Più vecchi di Topolino. Più vecchi di Hitler. Scuoto la testa:  non ce l’hanno fatta neanche loro a sopravvivere al tempo. Non con quello che hanno fatto.
Nemmeno il loro caso è però riuscito a sopravvivere al tempo: quelli che avevano più o meno la loro stessa età all’epoca del processo, passando davanti alla vetrine delle librerie ove è esposto il libro non paiono riconoscerli, non si fermano nemmeno, forse fanno finta, forse no. Anche loro dei vecchi, anche la loro memoria. Panta rei. Chissà se è vero ovunque, chissà  se anche a Verona la pensano così.
Monica Zornetta è una brava giornalista e sa che in casi come questo è importante fermare il corso del fiume, tornare indietro, osservare, ascoltare. Ludwig non è una storia che capita tutti i giorni e forse proprio per questo si prova più sollievo a seppellirla.

Chi racconta Ludwig racconta di un mostro a due teste affamato di purificazione uscito dalle viscere della migliore borghesia veneta.

Chi racconta Ludwig racconta di un processo e di due condanne a 27 anni di carcere.

Chi racconta Ludwig  racconta di 15 morti assassinati brutalmente, dal 1977 al 1984.

Dentro la storia di Ludwig c’è molto, forse troppo. C’è la retorica dei bravi figli di famiglia che diventano assassini. C’è Verona in quegli anni. C’è la questione spinosa sui confini della cronaca nera e sui doveri del giornalismo. C'è una coppia di serial killer italiani in italia. C’è un’ossessione (religiosa? pagana? umana?politica?) che deraglia in maniera incontrollabile. C'è una serie di lettere di rivendicazione degli omicidi inquietanti (che si fanno sempre più deliranti). C’è un rapporto morboso e una dipendenza omoerotica, allo stesso tempo negata e sublimata come amicizia, che trova sfogo solo nella violenza. C'è un "rogo di cazzi".C’è l’avvocato Niccolò Ghedini (per dire), coetaneo di Abel e Furlan e vicino agli ambienti giovanili della destra neofascista veronese, che li difende in tribunale assieme a Piero Longo. C’è la vita degli assassini e la morte degli assassinati. C’è il neonazismo e i movimenti di estrema destra dell’epoca (nonostante i due non fossero affiliati a nessun gruppo organizzato). C’è forse una verità, ma solo una delle molte. C’è il dubbio che se non ci fosse stato il caso non ci sarebbe niente di tutto questo.
Non è decisamente un paese per vecchi.

Alla libreria popolare di via Tadino c’era Monica Zornetta e a lei abbiamo posto alcune domande:
“Durante il procedimento giudiziario sono stati scartati, seguendo la linea della seminfermità di mente di Abel e Furlan, alcuni elementi interessanti per quanto riguarda il numero dei partecipanti agli omicidi: 3 furono i biglietti venduti a Furlan dalla cassiera dell’Eros Sexy Center di Milano; 3 secondo i testimoni gli uccisori dei frati; 4 persone addirittura quelle viste dal testimone dell’omicidio del sommelier padovano. Lei crede sia stata abbandonata una pista che forse avrebbe portato a una verità diversa?”
MONICA ZORNETTA: “Si, certo. Io sono certa che non sia assolutamente stata presa in considerazione questa pista. Volutamente o no, questo non lo so. Però effettivamente in più casi i testimoni hanno parlato di più di due persone in molti dei luoghi dei delitti. E lo stesso Abel, che ho intervistato in esclusiva e che racconta la sua verità nel mio libro, parla di un’organizzazione composta di 4,5 persone ai vertici e alcuni fiancheggiatori: una sorta di mostro di Firenze in senso veronese.”
“Crede che i giornalisti dell’epoca abbiano sbagliato contribuendo a creare attorno al caso quella confusione di cui Ludwig si è servito per nascondersi? Penso in particolare agli articoli sul docente di Brescia, il famoso “professor Computer” e al quotidiano La Notte.
MZ: “Certo, noi parliamo del docente di Brescia…certo, in quel caso là più che i giornalisti sono state delle deviazioni da parte dei magistrati. Posso dire invece che ci sono stati dei giornalisti, penso in particolare a Gianni Cantù, decano dei giornalisti veronesi, che hanno seguito dall’inizio alla fine il caso e che hanno sempre insistito per la tesi delle più persone presenti agli omicidi…certo le intenzioni e i percorsi seguiti dalla giustizia sono stati diversi.”
“Quale crede dovrebbe essere il ruolo dei giornalisti di fronte alle indagini della polizia?”
MZ: “I giornalisti di fronte alle indagini….non è facile rispondere a questa domanda perché ci sono dei segreti a cui ovviamente anche noi dobbiamo sottostare….certo è quello di scavare comunque, di raccontare una verità. Io con  Ludwig. Storie di fuoco, sangue, follia  ho cercato di raccontare alcune delle diverse verità che stanno dietro alla vicenda: una verità storica, che è quella processuale, che ha visto i due ragazzi uscire come gli unici due condannati e responsabili della vicenda Ludwig; ma ho voluto dare spazio anche a Wolfgang Abel, uno dei serial killer, con la sua verità; e poi ho voluto vedere se dal punto di vista psichiatrico ciò che era emerso, le due verità emerse, potessero essere ancora valide, e ne uscita una terza verità ancora…”
“Quanto conta la capacità di raccontare una storia come questa e quale lei crede che sia l’effetto da raggiungere?”
MZ: “Il linguaggio che si utilizza, insieme alla serietà della ricerca, alla ricerca approfondita, all’obbiettività, penso sia fondamentale. In Ludwig. Storie di fuoco, sangue, follia c’è un linguaggio più vicino al romanzo che a quello dell’inchiesta, però c’è un distacco che credo sia un po’ uno dei punti di forza del libro. Ecco, credo sia necessario  rimanere distaccati, essere come artisti che dipingono un’immagine che vediamo, riprodurla quanto più fedelmente possibile cercando di usare un linguaggio semplice. Io sono una fautrice della semplicità, attraverso la semplicità si arriva a tutti e il mio obiettivo è quello di far conoscere le cose ai lettori, una delle tante verità. Se ci fosse una sola verità sarebbe meglio però non fa parte probabilmente di questa vita.”
“Dov’è l’equilibrio secondo lei tra cronaca nera e informazione politica? È possibile un giusto mezzo tra gli ossessivi servizi su l’omicidio di Sarah Scazzi e un giornale fatto solo di informazione politica, specie se ci sono degli omicidi ancora a piede libero?”
MZ: “Qua apriamo il capitolo sulla spettacolarizzazione, sull’informazione sanguinolenta che oramai ci ha assuefatto tutti… ecco, probabilmente viene utilizzata per coprire un vuoto d’altro, un vuoto magari anche di responsabilità e coscienza politica. In effetti, anche basandosi su alcuni studi che aveva fatto l’osservatorio di Pavia era emerso che i telegiornali in Italia sono quelli in cui c’è il maggior numero di servizi di cronaca nera in assoluto. Tutto diventa un tam-tam  ripetuto in modo tale che sia il delitto che la vittima le persone le sentano quasi come dei familiari, delle persone molto vicine; secondo me questo proprio per coprire dei vuoti in altre sfere delle nostre vite, della nostra società e della nostra cultura, anche perché di vuoti culturali ne abbiamo effettivamente tanti."



Furlan ora è libero, lavora, si è pentito, è recuperato alla comunità. La sua mente è riuscita a superare quell’orrore. Abel no. Abel continua a negare, Abel non è libero. Non li avrebbero mai beccati se non li avessero presi con le taniche di benzina in mano mentre cercavano di dare fuoco alla discoteca di Castiglione delle Stiviere con 300 persone dentro. 
Gott Mit Uns.






Il primo omicidio compiuto da Wolfgang Abel (Dusseldorf, 1959) e Marco Furlan (Padova, 1960)  risale al 25 agosto del 1977 quando il senzatetto Guerrino Spinello venne bruciato nella sua Fiat 126 a Verona. Il 17 dicembre 1978 a Padova venne ucciso con più di 30 coltellate il sommelier omosessuale Luciano Stefanato. Il 12 dicembre 1979 a Venezia la vittima fu il tossicodipendente ventiduenne Claudio Costa. Nel 1980 Abel e Furlan uccisero a colpi di ascia e di martello la prostituta 52enne Alice Maria Baretta a Vicenza. Il 25 novembre dello stesso anno i due rivendicarono per la prima volta questi delitti col nome di Ludwig, inviando una lettera a Il Gazzettino. Furono anche accusati di avere dato alle fiamme, il 25 maggio 1981, la torretta di Porta San Giorgio a Verona, una piccola struttura abbandonata facente parte delle vecchie fortificazioni austriache, divenuta ricovero per sbandati e senza casa . Nell'incendio morì il diciassettenne Luca Martinotti, che stava trascorrendo la notte lì con un altro amico, rimasto gravemente ferito. Nonostante la rivendicazione da parte di Ludwig in un comunicato a La Repubblica, per questo delitto Furlan e Abel furono assolti. Il 20 luglio 1982 uccisero a martellate Gabriele Pigato e Giuseppe Lovato, entrambi frati settantenni del Santuario della Madonna di Monte Berico a Vicenza perché "tradivano il vero Dio". Il 26 febbraio 1983 uccisero a Trento il sacerdote don Armando Bison, che venne trovato con un punteruolo sormontato da un crocefisso conficcato nel cranio. Il 14 marzo 1983 diedero fuoco al cinema a luci rosse Eros di Milano, dove morirono sei persone e trentadue rimasero ferite. L'8 gennaio 1984 appiccarono un incendio alla discoteca Liverpool di Monaco; nel rogo morì una persona (una cameriera di origine italiana che lavorava nel locale) e altre sette rimasero ferite. Il 4 marzo 1984, mentre cercavano di dare fuoco con due taniche di benzina alla discoteca Melamara di Castiglione delle Stiviere vennero scoperti e arrestati. Dalle perquisizioni in casa dei due emerse come essi fossero i responsabili dei volantini di rivendicazione dei delitti. Al processo che seguì alle indagini, in seguito a perizia psichiatrica, ai due fu concessa la seminfermità di mente, grazie alla quale evitarono l'ergastolo. La condanna definitiva fu di 27 anni a testa. Nel febbraio del 1991, poco prima della definitiva condanna in cassazione, Furlan riuscì a scappare. Fu catturato, grazie alla segnalazione di una famiglia di turisti veneti in vacanza, nel maggio del 1995 a Creta, dove viveva sotto falso nome e riportato in ItaliaIl 12 novembre 2010 Furlan viene rimesso in libertà in seguito al suo comportamento positivo in libertà vigilata