lunedì 25 marzo 2013

Antonio Moresco e Walter Siti: conversazione "cinobalanica"


http://www.youtube.com/watch?v=WMHZFNDtcCc
Link per la Parte 1 dell'incontro con Antonio Moresco e Walter Siti al teatro I in occasione della festa per i 10 anni di http://www.nazioneindiana.com/  23/03/2013

http://www.youtube.com/watch?v=Rr_uyBlCelQ&feature=youtu.be
Link per la Parte 2 dell'incontro con Antonio Moresco e Walter Siti al teatro I in occasione della festa per i 10 anni di http://www.nazioneindiana.com/ 23/03/2013

Ogni volta che lo vedo e lo sento parlare, Antonio Moresco mi ricorda la composizione geologica della terra: esteriormente è una figura lineare, dai tratti duri e ruvidi; una scorza di granito, basalto e roccia mafica. Il volto richiama il San Gerolamo pensoso e sofferente di Caravaggio, trasmette un’idea di solitudine meditabonda, una sofferenza virile e colta. Il corpo è quello di un camminatore costretto a vagabondare sulla terra sino alla fine dei tempi, forte e snello. Sotto a questa scorza fatta di silicati di sodio magnesio e alluminio si avverte il magma liquido del nucleo: un vorticoso e profondo indagare l’Uomo, la Natura e l’Universo, un pendolo lacerante tra l’Abisso e la Speranza. È lì il nocciolo dei suoi libri, da lì nascono Gli Esordi e I Canti del Caos, lì si immergono gli Incendiati, lì è l’ultima Lucina. Come la terra sbuffa e erutta la sua intima materia attraverso lacerazioni e sconvolgimenti tettonici, così anche Moresco si fa Vulcano e, discorrendo in maniera quieta e incredibilmente ferma, tenta di squadernare al Mondo ciò che di esso è riuscito a comprendere.
Walter Siti è un cosmonauta, un proteiforme ricercatore dell’ἄνθρωπος. Le varie reincarnazioni della sua vita (nato modenese, professore universitario a Pisa, Cosenza e L’Aquila, rinato scrittore a Roma, ora esule a Milano) testimoniano il bisogno intimo di comprendere lo Gnòmmero, di tentare di srotolarne la matassa. Il corpo, la materialità del sudore (proprio e altrui) sono l’unica scala per potere osare l’impresa: attraverso i corpi conosce e riconosce se stesso; giungendo al fondo delle proprie ossessioni riscopre la Fibra della quale sono fatti quei corpi. Seguendo il filo della propria intimità e delle proprie pulsioni, alla stessa maniera di Dante (non a caso, di Dante hanno parlato a lungo nell’incontro al teatro I), percorre l’Universo e ne dispiega la trama. Ogni delusione, ogni croce, ogni sofferenza narrata nei libri è vera sofferenza, è vera escoriazione dell’anima; in questo sia Moresco che Siti sembrano d’accordo: l’unico modo per comprendere è soffrire.
Osservare questi due giganti sul palco, mentre offrono al pubblico scaglie della propria consapevolezza, mentre si stupiscono sinceramente del mancato interesse degli scrittori per la letteratura scientifica contemporanea o mentre affondano i denti nella propria memoria e nel rapporto con le loro Città (Milano-Moresco; Roma-Siti), è qualcosa che non può essere replicato o raccontato con le parole. A ruota libera, senza scalette o argomenti concordati, giocando di reazione l’uno sulle parole dell’altro, Moresco e Siti hanno avanzato sino a tardi, sino oltre i limiti scelti dal programma dell’incontro; mi hanno costretto a rimanere più di quanto avevo stabilito per la registrazione e a  disperarmi per essermi dovuto perdere le battute conclusive. Biondillo all’uscita mi ha chiesto stupito: «Ma stanno ancora parlando?»: il rinfresco seguente doveva iniziare già da 20 minuti, ma nessuno osava azzittirli; nessuno voleva davvero che smettessero. Sapere che ora sono entrambi a Milano, sotto un cielo «che va conquistato», come ha detto Siti, mi rallegra incredibilmente.

sabato 24 marzo 2012

Magis amica veritas



Gli Augias non fanno cultura, gli Augias sono «devoti della cultura», categoria cui Marc Fumaroli ha dedicato un libro decisivo, «Lo stato culturale». Per dire: Philippe Daverio fa cultura (mette brillantemente la sua competenza al servizio del mezzo), gli Augias (ce ne sono tanti) usano la parola cultura come schermo, la impregnano di un significato volontaristico e missionario (ah, quel pubblico da redimere composto materialmente e idealmente di professoresse!), la fanno diventare qualcosa di simile a un progetto mistico, a una pianificazione, a un catechismo sociale, a un gadget da servizio pubblico.
Gli Augias sono gli idoli del ceto medio riflessivo, soddisfatti di apparire credendosi un'apparizione. E, sempre cedendo all'insistenza di qualche principio superiore, usano la «cultura» con un certo dirigismo che, per altro, influenza il mercato dei libri. Vorrebbero dedicare una parte della loro vita ad altre cose, ma per fortuna poi si mettono al nostro servizio in quella vasta e sorprendente vanity fair che è la tv.
Aldo Grasso, Corriere della Sera, 21 Marzo 2012


Al piano sotto casa mia abita un signore che veste sempre di bianco e si crede il papa.

La mattina si sveglia e sorride al mondo. Si sistema seduto appoggiando il cuscino in verticale sullo schienale del letto, si stropiccia gli occhi. La figlia che lo asseconda da tanto tempo gli porta ogni mattina a letto l’Osservatore Romano e due fette di pane e marmellata di mele cotogne, che lui tanto ama sin da quando era bambino. Sorride alla figlia come un Padre, un Santo Padre. La benedice. Non prende mai il caffè perché soffre di pressione alta (anche Pietro, d’altronde si dice che avesse di tali problemi), si concede quindi un bicchiere di latte freddo. Finita la lettura va in bagno e compie i riti mattutini (si vocifera che sotto la doccia canti le canzoni di Lucio Dalla. Dio l’avrà in gloria). Quindi si veste in abito talare e si affaccia alla finestra del balcone da cui celebra la messa delle undici e impartisce la benedizione. Urbi et Orbi ovviamente.
Questo tutti i giorni.

Al piano sopra a casa mia invece abita un signore che veste sempre di nero e si crede il papa.

Non ha figli. Non ha moglie. È solo. Tutte le mattine dopo aver fatto colazione con un cannolo siciliano e della coca cola va al bagno e canta a squarciagola sotto la doccia Un papa nero dei Pitura Freska. Si commuove sempre un po’ sul ritornello. Poi si veste dei suoi drappi scuri e aspetta quieto quieto che esca sul balcone il papa del piano di sotto per fare la sua benedizione delle undici. Attende che sia bene in vista, poi gli fa un gavettone.
Questo tutti i giorni.

Non avevo mai pensato di ritrovarmi, così lontano dal colonnato del Bernini a essere condomino di due papi. La cosa un po’ mi diverte e un po’ mi turba.
Devo ammettere che il papa bianco, è bravo, è davvero bravo: nelle sue prediche parla di Amore, di Carità, di Solidarietà, di Giustizia, di Verità, e di tante altre belle cose e ogni volta instilla negli spazzini della via privata sulla quale il suo balcone si affaccia vera fede cristiana. Non so perché il papa nero ce l’abbia con lui, forse vorrebbe essere lui il papa bianco, forse è perché non ha un balcone da cui affacciarsi e benedire via pellizzone.



Quando sono arrivato in libreria, mezz’ora prima, era già tutto pieno di vecchie. Si sventolavano i loro ventagli l’una sul collo dell’altra, tutte eccitate come teenager, si dilungavano a chiedersi ossessivamente “ma cosa dirà, ma cosa dirà? Oh come mi piace…è tanto bravo, tanto..:”. Poi immancabilmente il discorso finiva sul nipote che non riesce a laurearsi o che si sta laureando (“Ah sul serio? Complimenti. Complimenti a lei, signora. No, complimenti a noi, signorissima”) o che vorrebbe laurearsi ma intanto soffre perché non troverà il lavoro quando lo cercherà se si laureerà e quindi non si sposerà e non figlierà e lei non nonnerà e quando andrà all’aldilà felice non sarà. O variazioni sul genere tipo la cucina e il tempo.
E il tempo libero? Per adesso son giunte tutte là a stormi a ascoltare Corrado Augias.

Appena apre bocca, anzi no, appena fa la a comparsa in libreria, ben vestito, spettinato in maniera pettinata, con la sua parlata ordinata, pulita, elegante, con le sue citazioni ordinate, sapienti, conturbanti, con il suo nuovo libro di nuovo editore, colore, sapore, ecco già quando lo vedo salire sul palco me ne accorgo:



è lui il papa bianco.



[Questa volta l’intervista audio non mi è stata concessa per problemi di tempistica, dovendo il signor Augias prendere un aereo per Roma. Comunque mi ha dato modo di contattarlo successivamente e gentilmente ha trovato il tempo per rispondere alle mie domande. Lo ringrazio nuovamente]

D: Nei suoi libri precedenti lei si è confrontato con la religione del Cristianesimo e con l’istituzione della chiesa cattolica; in questo affronta il tema della libertà e della coscienza civile degli italiani. Può descriverci in cosa consiste secondo lei la continuità della sua ricerca personale?
R: Per rispondere alla sua domanda devo prima parlare di un episodio che  racconto anche nel libro: nel 1993 il giornalista Pino Nicotri, in una mirabile inchiesta (Tangenti in confessionale), fingendosi un affarista pentito in piena crisi spirituale e morale dopo essere stato pesantemente coinvolto nei processi di tangentopoli, andò in alcune delle più importanti chiese italiane, portandosi dietro un registratore. La domanda cruciale che rivolgeva al confessore era se dovesse collaborare o meno con la magistratura inquirente. Nonostante il cardinal Martini (sant’uomo!) avesse recentemente esortato tutti coloro che erano stati coinvolti in tangentopoli a collaborare con la giustizia, la risposta del confessore era quasi sempre orientata in senso opposto, formulata in termini che sottolineavano la priorità del pentimento privato su quello pubblico. Un confessore nel duomo di Milano (quindi nel cuore del vescovado di Martini) gli disse “io se fossi in lei non mi presenterei”. Ma ci pensa? Un pastore di anime!Un altro, nella chiesa di Sant’Ambrogio: “Nessuno è costretti a tradirsi. Non mi pare che sia veramente il caso”.
Ecco, capisce qual è il filo rosso della mia ricerca? Ci sono delle zone grigie delle quali trovo sia giusto parlare e credo sia fondamentale riuscire entrare nel cuore delle ipocrisie, provare a comprenderle, analizzarle e lasciare che sia il lettore a portare a compimento la riflessione. Nell’affrontare l’istituzione del Cristianesimo o la coscienza civile degli italiani mi sono sempre posto come obiettivo di fondo quello di far emergere la verità.

D: L’Italia è secondo “Freedom House al quarantesimo posto nella classifica mondiale sulla libertà di stampa, dietro a Cile, Benin e Namibia; altre classifiche ci mettono al sessantanovesimo posto mondiale per quanto riguarda la corruzione e addirittura all’ottantasettesimo per  l’occupazione femminile. Non è questa la radiografia di un paese che civilmente appartiene al sottosviluppo? Non è che da troppo tempo viviamo nell’illusione che loro malgrado ci hanno regalato dei geni isolati (da Dante a Leonardo da Vinci a Caravaggio a Enrico Mattei a Giulio Natta a Piero Gobetti a Lorenzo De Medici a Camillo Benso di Cavour)? Non crede che da sempre siamo molto distanti rispetto allo status che l’arte, la cultura e lo sviluppo economico ci hanno educato a pensare nostro?
R: Sono in parte d’accordo, anche se trovo la sua conclusione un po’ eccessiva. La questione è complessa e ho provato a dipanarla nel mio libro: il paese viene da 18 anni di governi Berlusconi in cui l’istituzione democratica è stata presa d’assalto da tutti i punti di vista e 18 anni non sono pochi. Però bisogna stare attenti: la democrazia è anche uno specchio e il rischio è che quelle fattezze grottesche che va riflettendo siano davvero le nostre.  Quanto Berlusconi ha riflettuto l’Italia? Cosa inquadrano quelle statistiche che lei ha citato? Inquadrano senz’altro una situazione di estrema precarietà dei diritti civili che è due volte figlia nostra: in quanto cittadini e in quanto elettori di governi che non hanno fatto altro che tollerare e quasi stimolare il nostro peggiore malcostume. Allo stesso tempo penso però che il paese sia ricco di risorse e credo sia in grado di reagire a questi 18 anni di sonno della ragione e di mostri.
Ciò a cui non so rispondere è quanto possa volerci per uscire dal baratro civile in cui siamo piombati;  anche perché io non sono uno di quelli che crede che non rivestendo più alcun ruolo istituzionale, Berlusconi abbia desistito dal desiderio di riuscire a influenzare ancora i futuri governi per fare il proprio utile. Ha troppi interessi in Italia per potersi ritirare.   

D: Lei si è espresso più volte e in più occasioni sulla libertà di espressione e di informazione. Riguardo a tale tema non bisogna dimenticare come oggi la diffusione e la sopravvivenza di un organo di informazione siano soggette alla legge del mercato. Pensiamo al caso de Il manifesto: non crede che la chiusura di un giornale sia di per sé una perdita per la libertà di stampa di un paese? È davvero più giusta una dimensione completamente liberista in cui, come vuole Beppe Grillo e il “Movimento 5 Stelle”, senza i finanziamenti statali i giornali devono pensare in primis alle vendite per sopravvivere? Il rischio non è un appiattimento dell’informazione?
R: E’ una situazione delicata, anche perché di per sé Il manifesto è un giornale abbastanza anomalo nel panorama dell’informazione. Il problema dei finanziamenti statali è emerso come tale perché non siamo riusciti a gestire la cosa nel modo in cui un paese civilmente maturo dovrebbe. Io non credo che i presupposti di tale finanziamento siano sbagliati: sono stati i criteri che lo regolavano ad aver generato l’indignazione dei cittadini. Credo che l’opinione pubblica possa avere solo dei vantaggi dal coesistere di un numero elevato di testate; allo stesso tempo  non si può in questo modo giustificare la pioggia di denaro pubblico che in passato è caduta su organi di partito come Il campanile dell’UDEUR di Mastella. Ecco, credo che quelli che sono giornali di partito debbano trovare modi alternativi per autofinanziarsi, e orientarsi a spostare sempre più la testata sul web così da evitare almeno i costi di stampa. Il caso de Il manifesto è diverso e io credo che testate con una storia come quella non possano chiudere dall’oggi al domani. Ho molto apprezzato l’appello che hanno rivolto ai propri lettori per aumentare le vendite; ma non credo che lo Stato sia in questo momento nelle condizioni per potersi esporre così tanto per un giornale così dichiaratamente di sinistra. Non so neanche loro a quali condizioni accetterebbero aiuto, conosco la direttrice e mi sembra una donna di grande responsabilità e fermezza.

D:Una fede religiosa comporta anche la sottomissione sia a un’autorità divina che a un’autorità istituzionale, rappresentata da un clero che si fa mediatore del rapporto collettivo con la divinità. Lo spazio della libertà religiosa del singolo non può non ritrovarsi quindi a essere ridimensionato laddove egli scelga l’adesione a un credo istituzionalizzato e gerarchizzato. Come pensa che tale impostazione possa influire sulla coscienza civile di un cittadino e sulla sua concezione della libertà? Come pensa che tutto ciò abbia avuto rilevanza nel successo di personalità politiche fortemente autoritarie in Italia?
R: Sull’argomento della libertà personale all’interno di un culto organizzato sono secoli che si disputa, pensi solo alla difficoltà del conciliare una divinità onnisciente e onnipotente con il concetto del libero arbitrio o a tutte le discussioni sull’origine del male; già Agostino si chiedeva “Unde malum?” e già Dante aveva messo in bocca a Marco Lombardo nel canto XVI del Purgatorio una dissertazione sul libero arbitrio. Quindi come vede è un problema di vecchia data che la comunità cristiana non è ancora riuscita a risolvere del tutto. Il rapporto chiesa-potere è anch’esso di vecchia data e credo che gli orientamenti e le prese di posizione politiche dei vari papi e vescovi e la loro vicinanza ad uno schieramento politico o la loro lontananza abbiano contribuito a plasmare una certa forma mentis nell’italiano: tutte le volte che l’interesse contingente si è scontrato con l’anima del messaggio cristiano e il primo ha avuto la meglio sul secondo, i fedeli italiani hanno perso un pezzetto di libertà nel loro modo di concepire il reale e, qualora si siano adeguati senza alcun ripensamento, anche un pezzetto della loro coscienza civile. Nel mio libro c’è tutto un capitolo dedicato a questo argomento e sulla questione della doppia morale.

sabato 10 marzo 2012

Fenomenologia di Marco Travaglio



In primis, un libro.

La copertina in brossura dà da subito un senso di decorosa umiltà: come sfondo tre rettangoli di colori diversi di dimensione decrescente dall’alto verso il basso, schiacciati dall’enorme titolo bianco che sembra voglia saltare fuori dalla copertina e venirti a palpare le tempie, gridando “NON VUOI LEGGERMI???? LEGGIMI!!!!”, anch’esso a caratteri decrescenti (la prima parola nel rettangolo più grande, la seconda in quello di dimensioni minori, il sottotiolo e la firma degli autori, in corsivo, in quello più piccolo). Sono 912 pagine.
Novecentododici.
Un oggettino simpatico.
Questo è come appare Mani pulite: la storia vera vent’anni dopo. Un mattone che ha come soggetto una indagine giudiziaria, i commenti attorno a essa, il suo svolgimento e ciò che ne è conseguito, raccontata attraverso numeri e atti processuali.

Credo che ne abbiano venduti solo il giorno della presentazione una cinquantina in un’ora.
Ecco, è da qui che vorrei partire: tutte quelle persone che erano lì e hanno comprato quel libro – e le altre cento che c’erano credo che non lo abbiano acquistato esclusivamente per esaurimento delle copie – non erano alla Feltrinelli Express della stazione centrale di Milano semplicemente per comprare un libro. Erano lì per una ragione molto diversa: il presenziare a un rito.

Dal fondo della sala, mentre dietro a un cordone di sicurezza si agita una pappa umana di un centinaio di persone, si manifestano tre figure. Sono uscite dall’ascensore accolte allo stesso momento dal campanello del piano e da un grido strozzato di felicità. Il miracolo è avvenuto: la trinità si è consustanziata come promesso. Salutano a mezza bocca e si dirigono verso il centro del locale: il loro linguaggio del corpo vuole comunicare professionalità, integrità e determinazione. Salgono sul palco, sorridono: il rito ha inizio.
Non mi interessa qui parlare di Peter Gomez, che professionalmente è quello che stimo di più, né di Gianni Barbacetto (che, poverino, non è stato quasi degnato di uno sguardo dalla massa dei fedeli: nessuno gli ha chiesto uno sputo di autografo, scarsi perfino gli applausi al suo intervento. Non erano lì per lui e glielo hanno voluto far notare), mi interessa invece un’analisi approfondita della forma di Marco Travaglio.
Non affronterò i contenuti dei suoi interventi, ma il modo in cui egli le porta avanti, cosa che credo essere fondamentale nel successo del suo personaggio e nella creazione di una vera e propria chiesa di seguaci che serba nei suoi confronti una riverenza quasi sacrale, sicuramente non paragonabile a quella di qualunque altro giornalista vivente (Santoro compreso) e superiore a quella di molti politici. Il mio scopo è in definitiva di mettere in luce e affrontare l’innegabile virtù dell’actio di Travaglio, complice, a mio pare, del senso di affidabilità che i suoi articoli e le sue apparizioni televisive riescono a produrre nei suoi sostenitori e dell’aura ieratica che lo ammanta.
La prima cosa da notare è la routine dei movimenti, da attore: Travaglio replica da anni una stessa serie di azioni con costanza tale da essere riuscito a renderla caratteristica e identificatrice. Tale scelta oltre a far percepire con maggiore incidenza la sua presenza “scenica” –non a caso è nelle sue apparizioni a teatro, ancora prima che in televisione, che riesce a eccellere- e quindi a mediare immediatamente nello spettatore un sentimento di appagamento per il trovarsi di fronte al proprio idolo (“è proprio lui, è proprio lui”, è la reazione inconscia al riconoscimento dei tratti caratteristici), lo mette a proprio agio e lo invita a fidarsi e a sentirsi confortato dalla persona che ha davanti a sé.
Tipico, specie nelle presentazioni più informali, è il suo togliersi la giacca: la camicia (solitamente bianca) è infatti uno dei tratti che lo identificano e che non a caso ama più esporre per mostrarsi umile e elegante allo stesso tempo. In altre situazioni –quasi sempre a Anno Zero o in televisione- utilizza una giacca, ma anche qui la sua preferenza va verso tessuti semplici e colori autunnali molto modesti: la sua mise canonica è quella con la giacca verde “smorto” che ha indossato nella sua memorabile apparizione al Satyricon di Daniele Luttazzi, giacca verde  che ricorda nello spettatore ciò che appunto egli è stato e propone quindi un messaggio di coerenza e integrità.
In ogni caso, giacca o non giacca, è solo quando raggiunge la sedia che Travaglio inizia davvero a fare sul serio: la sua più grande abilità è quella di riuscire a ridurre i movimenti al di sotto dell’essenzialità e a raggiungere con questo minimalismo una maggiore carica espressiva. Tali movimenti sono raggruppabili in due grosse tendenze: attesa (o ascolto) e offesa (o declamazione). Nella prima situazione è un altro a prendere la parola, a parlare, a svolgere un ragionamento intorno a un punto, ciò nonostante in questa fase Travaglio non rinuncia alla comunicazione: le gambe sono incrociate l'una sull'altra, le mani si uniscono sopra al ginocchio con il quale fa oscillare leggermente il piede della gamba accavallata, le spalle sono tese per permettere questa postura. La testa e lo sguardo, unici, sono fissi: rivolti verso chi sta parlando, se è egli è un avversario o se non è d’accordo con ciò che sta dicendo; gelidamente bloccati a fissare un punto a mezza altezza se la cosa non gli interessa o se ritiene che lo si stia citando o chiamando in causa. Con questo atteggiamento di attesa, appunto, Travaglio cerca di comunicare allo spettatore una dignità e una professionalità che vuole essere tanto più convincente quanto appare sguaiata o urlata quella del personaggio a cui è contrapposto (il mondo di Travaglio “in scaena” è manicheo, vive di contrapposizioni – che poi possono pure scomparire o attenuarsi, ma questo solo dietro le quinte-; nemici canonici, o comunque coloro che emergono come tali dalle trasmissioni televisive e negli articoli, sono in ordine sparso: Filippo Facci, Maurizio Belpietro, Pierluigi Battista, Andrea Capezzone, Vittorio Sgarbi, Daniela Santanché, Alessandro Sallusti, Cuordipietra Famedoro). Tale passività riesce inoltre a  suggerire la volontà di scagliarsi all’attacco, di ribattere parola per parola le parole dell’avversario parolaio, allude a come siano in serbo chissà quante e quali risposte da servire con la mano sinistra, sogghignando a denti stretti (questo sia nel caso che prenda la parola, sia nel caso poi non la prenda). Nella fase di attacco, Marco Travaglio mostra tre diversi atteggiamenti: la risata di scherno, volta a stimolare la stessa reazione nello spettatore (a essa possono essere aggiunti movimenti con le mani come a dire “ma pensa te, ma guarda un po’ questo”); l’indignazione, che si produce con rapidi movimenti agitati del corpo, inarcamento delle sopracciglia e rotazione degli occhi; e infine la requisitoria. Quest’ultima è quella più popolare, perché è quella con la quale porta avanti i suoi editoriali televisivi nelle trasmissioni di Santoro, ma è usata anche durante le presentazioni. Oggetto fondamentale per la requisitoria è il supporto di lettura, libro o foglio di carta (che deve essere ben percepibile e tradizionale; quindi nessun tipo di I-Pad o simili, al massimo un vecchio cellulare), la consultazione del quale aumenta la solidità e l’autorevolezza di quanto viene pronunciato (il messaggio per il pubblico è: questi sono dati scientifici, inoppugnabili, inattaccabili, a voi sconosciuti fino al momento in cui io ve li ho rivelati, li ho sotto mano proprio in questo momento. Carta canta). Esso viene tenuto con ambo le mani, le quali restano in questo modo ferme (esse sono utilizzate solo come commento di qualche battuta o per “creare” un applauso). I suoi movimenti, seppure scarsi o apparentemente assenti, sono il risultato di una strategia comunicativa molto fine che mira a valorizzare ciò che viene detto e che carica il discorso di messaggi persuasivi che influenzano in maniera decisiva la ricezione delle sue affermazioni.
Anche la mimica facciale è utilizzata in tal senso. In questo caso va sottolineato in primis il movimento autoassertivo che compie soprattutto durante i passaggi televisivi: nei suoi editoriali a Servizio Pubblico è molto facile notare un leggero dondolio della testa, volto a convincere lo spettatore della verità di ciò che sta dicendo. Con esso, Travaglio viene così con un unico movimento ad affermare a sé stesso e al pubblico la verità della propria parola e allo stesso tempo utilizza questo stratagemma per dare ritmo al discorso (massimo è l’utilizzo di tale stratagemma durante le battute, come offrendo un supporto in più al pubblico per la loro risata). Oltre a ciò, Travaglio sfrutta anche lo sguardo -e in particolare la maggiore o minore apertura degli occhi e l’inclinazione delle sopracciglia-  per convincere lo spettatore: stupore o indignazione, sarcasmo o dubbio reale, smarrimento o rabbia, tutte le reazioni che egli sceglie di incarnare attraverso la propria mimica facciale, vengono esternate, esternando così anche lo stimolo a quella che è la reazione desiderata nel pubblico. È un vecchio stratagemma del melodramma e del cinema melodrammatico: viene mostrato sulla faccia dei protagonisti e messo ben in evidenza quello che si suppone essere la reazione suscitata in chi guarda; serve a creare pathos e a stimolare la comprensione e l’appoggio dello spettatore che si identifica in lui.
Altro punto fondamentale è il già menzionato utilizzo del ritmo. Qui Marco Travaglio è un vero fenomeno: la sua recitazione è un mirabile utilizzo di pause, impennate, rallentamenti, sottolineature vocali; egli riesce attraverso una modulazione ritmica a portare avanti una tesi mostrando il contenuto e nascondendo dietro a esso lo stile che lo contiene e che rappresenta il vero motore del consenso. Il suo marchio distintivo è il “fulmen in clausola”: la battuta, il gioco di parole inatteso, il paradosso, tutti questi stratagemmi del comico sono dosati in maniera eccellente e esplodono solitamente al termine di un capoverso del suo editoriale. Le parole devono venire scandite in maniera rapida ma precisa, e devono farlo seguendo un movimento che alterna monotonia (e monodia) a picchi di intensità: la prima domina le parti del discorso che si vogliono più oggettive, inattaccabili e “noiose”: i dati, i riferimenti e le sentenze; i secondi si verificano in occasione delle battute. Rallentamenti minimi e una maggiore ritmicità dell’eloquio si hanno laddove egli utilizza in maniera antifrastica e ironica le parole di qualcuno con la volontà palese di ridicolizzarlo. Anche l’utilizzo del ridicolo infatti risponde a una esigenza di potenziamento della propria figura: distruggendo gli altri, Travaglio si erge come fine umorista (al di là di esserlo o meno) e abile pensatore, in grado di schiantare al suolo nel ridicolo chiunque voglia solo con l’effetto delle proprie parole. Non è strano udire dalla sua bocca un uso molto disinvolto del vituperio, della caricatura, dell’appellativo, della canzonatura che parte dai difetti fisici, del nomignolo, strumenti classici della parola comica corrosiva, che però nascondono, come insegna Freud, un’esigenza di attaccare per non essere attaccato. E di acredine se ne avverte molta in alcune di queste battute, nelle quali spesso vuole dimostrare un’ulteriore superiorità (e rinsaldare il legame con il proprio pubblico, in grado di cogliere senza problemi tutte le allusioni personali) e una ulteriore autoaffermazione, non nominando neppure il riferimento, come a negare allo spernacchiato anche la dignità del proprio nome: il mashato, Angelino Jolie, Polito El Drito, e così via.
Vorrei concludere questa breve rassegna delle capacità formali dell’attore Travaglio con quella che secondo me è la caratteristica principale del suo successo: la sua sensualità. Travaglio è sexy. Lo è sia per doti naturali che per modo di proporsi, ed è questa, credo, la ragione principale delle folle oceaniche che lo vanno a vedere (non a ascoltare) parlare. Sull’uno e ottanta, brizzolato, capelli ricci che non mostrano evidente stempiature, magro e tonico, occhi azzurri cristallini e profondi, due lame: un fascino maturo che sprizza sensualità a ogni ammiccata, a ogni risatina, a ogni abbassamento di ciglio ( e sono molti). Travaglio non vende i libri, vende se stesso. Sempre. Anche dietro ai suoi editoriali cartacei, vedi il suo corpo, lo immagini nudo, ti cibi di lui. Se il Verbo si è fatto Carne, con lui è la Carne a farsi Verbo: è la Carne che prende la parola e celebra la propria fisicità. Ecco perché quelle presentazioni di libri e quelle apparizioni televisive, assumono costantemente la forma della Messa: masse di persone (non a caso più donne che uomini, ma ciò non cambia, egli in realtà è sex symbol per entrambi) con la bava alla bocca, in preda all’eccitazione, all’erezione, con le mutandine bagnate, pronti a applaudire, a urlare, a ridere, a fare tutto ciò che è necessario fare per compiacerlo, per compiacere il loro oggetto del desiderio. L’incomunicabile oggetto del desiderio. Lui li osserva esplodere nel loro eccitamento e inizia anche lui a godere, esplode, si fa tonante, ride Omerico del loro e del proprio piacere. È un’orgia. Egli è allo stesso tempo il bravo ragazzo della porta accanto, l’uomo elegante e brillante che ti tromba dopo averti sedotto, portandoti a cena in un locale “giusto”, il genietto simpatico dalla battuta azzeccata, l’intellettuale impegnato  – ma senza colore politico – che ti rivela le verità che non conoscevi, l’illuminista che lotta contro il male e ti conduce fuori dalla caverna, Voltaire e George Clooney assieme; e il tuo labbro, le tue labbra, pendono sempre più giù, cadi ipnotizzato-a; compreresti tutto da lui, perfino un libro che non leggeresti mai.

La mia trattazione di queste sue qualità è senza dubbio insufficiente, ma un’analisi più approfondita avrebbe richiesto maggiore spazio. Ho voluto solo accennare a alcuni aspetti di quella che ritengo essere una meravigliosa macchina retorica, un vero fenomeno della recitazione, un genio teatrale appena disceso dal carro di Tespi. Un giornalista, vero, anche un giornalista; con le sue abilità, le sue tecniche e il suo stile. Ma è appunto proprio il suo stile che lo ha trasformato in quello che egli è, non come ci si illude di pensare, il suo “raccontare i fatti”, non il suo “archivio”. Anche quello, certamente. Ma la chiave del successo dell’uomo, ciò che lo ha portato a essere celebrante e celebrato di un rito laico, non va dimenticato, risiede in queste abilità e nella sua strategia persuasiva. Non c’è niente di male in questo, ma va ricordato. Credo serva a qualcosa, credo serva almeno a questo: a mantenere la lucidità, a non finire come un fedele acefalo con gli occhi a spirale e le mutandine bagnate; a non uscire dalla stazione centrale di Milano con un mattone di 912 pagine in mano che non riuscirai mai a leggere e 19 euro e sessanta in meno, interrogandosi sul perché.

giovedì 16 febbraio 2012

Al bar del Sardo





Ascolta l'intervista a Peter Gomez:



Ogni mattina da tre anni a questa parte vado a prendere il caffè al bar del sardo vicino all’università. Ogni mattina alle 07.55 in punto sono lì e ogni mattina seduti al bancone stanno tre ubriachi.
Uno è abbastanza giovane, avrà 32 anni, capelli scuri, occhiali a fondo di bottiglia. Tutti i giorni quando arrivo lo trovo che ripete a se stesso “fannotuttischifofannotuttischifofannotuttischifofannotuttischifo…” A fianco a lui c’è uno che avrà 60 anni o giù di lì, capelli ricci arruffati, barbetta bianca; tutte le mattine quando arrivo lo trovo che ripete a se stesso (o a quell’altro, non ho mai capito): “lacrisilacastalacrisilacastalacrisilacasta…” Il terzo c’avrà 75-80 anni, è sempre in giacca, gilè e papillon, lo chiaman tutti professore; ecco, tutti i giorni quando arrivo lì, lui sta ripetendo sottovoce a un bicchiere di bonarda: 
“ridammifanfaniridammiandreottiridammifanfaniridammiandreotti…”. 
Tutti i giorni così.
La mattina dopo il giorno delle dimissioni di Berlusconi sono andato al bar con il Corriere sotto braccio. Loro imperterriti:
“fannotuttischifofannotuttischifofannotuttischifofannotuttischifo..”
“lacrisilacastalacrisilacastalacrisilacasta…”
“ridammifanfaniridammiandreottiridammifanfaniridammiandreottiridammifanfaniridammiandreotti…”
Allora ho tirato fuori il giornale e agitandoglielo sotto il naso ho detto:”Oh, l’avete sentito che è caduto il governo? Adesso fanno Monti presidente del Consiglio! Era ora, no?”
I tre son rimasti in silenzio. Si sono voltati all'unisono a guardarmi; quindi si sono guardati in faccia l'un l'altro; quindi si sono nuovamente voltati verso di me e a turno hanno detto:
“E’ morto il re”.
“Evviva il re.”
“Sputate al re”.
Dopo di che hanno ripreso con il loro solito tran tran, come se nulla fosse successo.

In fondo al bar del sardo la mattina è facile trovarci un tipo basso basso, scuro scuro, che si mangia un’arancia.  Non so come si chiami. Non alza mai la testa, sta sempre lì a pelare la buccia della sua arancia pezzo a pezzo; ha un libro davanti a sé ma quasi non lo guarda. Ci ho parlato solo tre o quattro volte, per caso. La prima volta, io me ne stavo tranquillo al bancone a farmi riempire le orecchie dal sardo con chiacchiere a vuoto (a non rendere) mentre cercavo di prendere a sberle di caffeina quella mattina inutile, quando lui a un tratto mi punta il dito contro e mi dice: “Ma lei non sarà mica uno di quei deficienti che si fanno la foto da soli con in mano un foglio a quadretti strappato dal quaderno di matematica delle medie con su scritta una roba tipo 'io difendo la libertà di informazione?' Si, si, lei è uno di quelli, ha la tipica faccia da deficiente. Si vede a occhio. Non che io abbia niente in contrario, eh. Fate, fate pure. Tanto io resto della mia idea. Come tutti. Vede, io credo che la questione sia un po' sopravvalutata: a me ad esempio la libertà di stampa sta bene solo se è libertà dalla stampa, guarda un po'!'”.
Io ho pensato ma che vuole questo qua, ma che viene fare il filosofo con me? ma che sono qui per stare a sentire queste scemenze qua? ma chitteconosce, ma io boh, ora gli tiro la tazzina del caffè in testa così se ne sta zitto. Se hai da smaltire una sbronza il mondo è pieno di martelli per acciaccarti le dita. che poi a me l'odore della sua cavolo di arancia dà pure fastidio. ma pensa te.
Invece gli ho detto: “Ah. Bene. Buona giornata.”
Un’altra volta invece mi ha detto “guardi , la grossa differenza fra me è lei che io ho il coraggio di rendermi sgradevole. Io detesto un sacco di cose, davvero, detesto pure la nazionale azzurra. Però, vede, io lo dico, lei no. A me non me ne fotte niente del Ruanda, però lo dico. A lei pure non gliene fotte niente, però non lo dice. Questa è la differenza.
E io ho pensato, ma guarda questo qua, ma  che vuole da me, ma io gli tiro una padella, ma chi ti conosce, ma chi ti ha detto che voglio sapere quello che pensi te, nano scemo del ciufolo, ma che sarai mica pure fascista? Ma che sono il prete confessore che devo ascoltare qualunque coscienza con il mal di testa? ma pensa te.
Poi però non ho detto niente di tutto questo. Invece ho detto: “Ah. Buona giornata.”
Un’altra volta mi ha preso da parte e mi fa: “vedo che lei legge i giornali, bravo, bravo…lei crede di informarsi, mh? Ma non lo sa che l’informazione informa i fatti, non sui fatti?  I fatti non accadono mai…Non conta mica la veridicità del fatto, come crede lei. Tsk. Quello che importa è solo il convincimento che un fatto, vero, verosimile o palesemente inventato,  riesce a raggiungere. I fatti di per sé non servono a niente…”
E io allora ho pensato no ma questo proprio con me ce l’ha? ma non è che ci sta provando? ma io gli tiro una zuccheriera, così lo faccio stare zitto per un po’, ma quanto chiacchiera, ma che siamo a Montecitorio, eh? ma che sono una caritas per chi non ha niente da fare? Che c'ho scritto in testa 'Bacheca per i consigli ai giovani'? ma pensa te.
Però poi non ho detto questo, invece ho detto: “Ah”, e me ne sono andato a casa.

Quella stessa sera sono andato di nuovo alla Libreria Popolare di via Tadino: c'era la presentazione di Guerra e Pace, il nuovo mattone russo che la Mondadori sta cercando di sbolognare sul mercato. Io non l'ho letto però me ne avevano parlato bene. Solo che una volta lì ho scoperto che ero arrivato un po' tardi. Come tardi? Eh, l'autore non c'è. Come non c'è? Non c'è. Ma a che ora era l'incontro? No, non ha capito, non c'è più fisicamente: è morto. Morto? Da 100 anni. E' stata una cosa improvvisa. Eh si. E chi c'è stasera? Stasera c'è Peter Gomez. Buono? Ottimo. Va bene, proviamolo, me ne porti un piatto e un mezzo litro del rosso della casa. Subito signore. 
Oh, questo Gomez era proprio bravo! Me ne sarei presi due piatti volentieri però volevo rimanere leggero perché  il giorno dopo avevo lezione presto. Ho scoperto che è pure direttore de www.ilfattoquotidiano.it. Sarà stato il lambrusco, tutte le chiacchiere della mattina con il tipo basso basso, non so; però avevo un po' di domandine che mi frullavano per la testa e allora ne è venuta fuori questa breve intervista:
“Per come la vede lei c’è solo un modo giusto di fare informazione o la verità, che è l’obiettivo di ogni ricerca giornalistica, può essere rincorsa in modi diversi? Facendo una citazione illustre : Elio Vittorini scrisse a Mario Alicata su Il Politecnico che ‘la cultura cerca le verità e la politica se volesse dirigerla non farebbe che tentare di chiuderla nella parte già trovata della verità. Soprattutto non vorrebbe lasciarla sbagliare, e l’errore è necessario pungolo alla cultura perché si rinnovi’. Condivide questa frase? La si può applicare anche al metodo giornalistico?”
Peter Gomez: “Guarda, io sono molto più cronista. Bisogna ricercare i fatti, verificarli e presentarli se sono verificati. Quelle che sono ipotesi si presentano chiaramente come sole ipotesi, il nostro compito è ricercare la verità ma più che altro raccontare le cose giorno per giorno per quello che accadono, sapendo di non avere sempre la verità in tasca. Quello che oggi sembra in un modo, domani potrebbe dimostrarsi in un altro modo, non bisogna mai trarre conclusioni affrettate.”
“Dalle pagine del vostro quotidiano si levano spesso attacchi a quelli che voi definite ‘giornalisti servi’; lei proprio non crede alla loro libertà di coscienza? Crede che la loro sia solo una scelta di convenienza? Penso anche a giornalisti anche con posizioni interessanti in quello che è il panorama della ‘destra’, come Facci o Cruciani…”
PG: “Mah, c’è caso e caso. Ti dico delle esperienze personali: finché non è scoppiato il caso ‘Betulla’, io pensavo che quello che conosciamo come Betulla fosse semplicemente una persona che la pensava in maniera differente da me. Poi abbiamo scoperto che prendeva dei soldi. (si riferisce al giornalista -attualmente anche deputato-  Renato Farina, il quale, in seguito a un indagine della magistratura, ha ammesso di aver collaborato, quando era vicedirettore di Libero, con i servizi segreti italiani, fornendo informazioni e pubblicando notizie false in cambio di denaro. Per questo episodio è stato radiato dall'Ordine dei Giornalisti, anche se in seguito la Corte di Cassazione ha annullato tale provvedimento, N.d.A.). È a caso a caso, non si può generalizzare. Anche questa cosa dei giornalisti di destra, eccetera…a destra ci sono anche degli ottimi cronisti. Poi è legittimo avere la propria opinione sul mondo…io non penso che tutti quelli che la pensano in maniera diversa prendano dei soldi perché altrimenti loro stessi sarebbero autorizzati a pensare il contrario di qualcun altro. Certo, non è un bel mondo…ma non è un mondo fatto di giardinieri”.
“Spesso la cronaca nera è usata da alcuni giornalisti per nascondere vicende politiche. Pensiamo ai plastici di Bruno Vespa. Ecco, cosa dovrebbe fare un buon direttore di giornale di fronte a un caso come Ludwig, sopratutto fin tanto che gli assassini sono a piede libero? Non raccontare? Lasciare la notizia in quindicesima pagina o più giù?”
PG: “No, no, raccontare e raccontare con ampio spazio, raccontando tutte le notizie che i suoi cronisti sono in grado di trovare. Non dimentichiamoci che il dovere nostro di giornalisti è raccontare i casi che interessano la gente. Il problema di Bruno Vespa non è che lui abbia raccontato con decine e decine di particolari dal servizio pubblico una serie di delitti, da Cogne a quant’altro; il problema è che non ha raccontato il resto. La cronaca nera è un giornalismo assolutamente di serie A e deve finire anche in prima pagina. Noi dobbiamo pensare che da una parte abbiamo il dovere di informare su tutto ciò che interessa la gente e che dall’altra abbiamo un altro dovere, di pagarci i nostri stipendi e mantenerci i nostri giornali. Quello che fa vendere i giornali non è necessariamente ignobile, dipende come li affrontiamo gli argomenti.”
“Un gran numero di persone guarda alla rete come a uno spazio libero, un luogo in cui trovare le verità oscurate dai mezzi di informazione tradizionali, un terreno al di sopra degli ordinari schieramenti ideologici e politici. Umberto Eco e altri intellettuali hanno invece invitato a maggiore cautela, ricordando come in Cina internet sia al contrario strumento di potere censorio e di controllo e mostrando come nella molteplicità delle opinioni e dei siti sia divenuto sempre più difficile capire di chi fidarsi e riconoscere la verità. Lei in quanto giornalista e direttore del sito internet di un giornale, come si pone in questo dibattito?”
PG: “In Cina c’è un problema di censura, ma che riguarda tutti i media. Nonostante la censura che c’è in Cina, milioni di persone che ne sono in grado riescono in parte a sfuggirvi perché internet permette a chi ha le conoscenze tecnologiche adeguate forme di navigazione anonima e forme attraverso le quali si può entrare in collegamento con altre persone non riducendo a zero, ma riducendo al massimo tutta una serie di rischi. La posizione di Eco e di altri intellettuali è sicuramente vera, ma equivale a quello che accade in ogni edicola ogni giorno, non tutti i giornali fanno buona informazione e c’è un sacco di gente che è convinta che invece il giornale che legge faccia dell’ottima informazione. C’è una tendenza da parte di alcuni strati di cittadini a scegliere quel media e quelle voci che gli raccontano quello che vogliono sentirsi raccontare. In rete c’è la possibilità, se ben sfruttata e se ci si fa garanti dell’informazione con la propria credibilità che non si conquista in un giorno, c’è la possibilità di far passare dei messaggi diversi. Cero c’è ancora gente che è convinta che Bin Laden non c’entri con le due torri, e questo è stato frutto di informazioni…non false…ma non complete diffuse dalla rete. È per quello che il giornalista professionista e onesto sa cogliere o deve saper cogliere qual è il particolare e sapere concatenare i particolari fra di loro per poter dare un senso al quadro completivo e certe volte non riuscendoci. Lo sforzo che cerchiamo di fare noi a Il Fatto Quotidiano è di aprire nel sito internet, tenendo separati  i fatti dalle opinioni, una platea di blogger più vasta possibile con anche idee politiche o convinzioni diverse tra di loro, così che  a poco a poco i cittadini possano cominciare a apprezzare quello che di buono ti può dire anche quello considerato un avversario o ideologico”.

A casa mi sono fatto una pasta aglio e olio. Sul primo davano Radio Londra. Mentre lo guardavo non ho pensato a quello che mi ha detto Gomez, non ho pensato a quello che mi aveva detto il tipo basso basso del bar, e nemmeno a quello che andavano ripetendo i vecchi. Tutto quello che ho pensato è stato che il grassone ha degli occhi azzurri bellissimi e che poter veder un ciccione seduto a una scrivania rotante che  parla per cinque minuti di quello che gli passa  per la testa è davvero una cosa bellissima, e chi non è in grado di capirlo è già sconfitto.

martedì 14 febbraio 2012

Ludwig, Gott Mit Uns?


Ascolta l'intervista a Monica Zornetta:



Quando prendo in mano il libro la prima cosa che noto è la faccia dei due ragazzi: giovani, 24, 25 anni, ma potrebbero essere anche di meno; capelli lisci lunghi, volto pulito, connotati quasi efebici l’uno; capelli crespi, un accenno di barba, lo sguardo perso, l’altro.

Dove sono ora quelle facce? Le persone che le indossano sono le stesse? Cerco su internet. Quando trovo le prime immagini la sorpresa è notevole: Marco Furlan e Wolfgang Abel sono ora dei vecchi. Molto più dei 51 e 52 anni che segnano le loro carte d’identità. Più vecchi di Mario Capanna. Più vecchi di Renato Curcio. Più vecchi di Topolino. Più vecchi di Hitler. Scuoto la testa:  non ce l’hanno fatta neanche loro a sopravvivere al tempo. Non con quello che hanno fatto.
Nemmeno il loro caso è però riuscito a sopravvivere al tempo: quelli che avevano più o meno la loro stessa età all’epoca del processo, passando davanti alla vetrine delle librerie ove è esposto il libro non paiono riconoscerli, non si fermano nemmeno, forse fanno finta, forse no. Anche loro dei vecchi, anche la loro memoria. Panta rei. Chissà se è vero ovunque, chissà  se anche a Verona la pensano così.
Monica Zornetta è una brava giornalista e sa che in casi come questo è importante fermare il corso del fiume, tornare indietro, osservare, ascoltare. Ludwig non è una storia che capita tutti i giorni e forse proprio per questo si prova più sollievo a seppellirla.

Chi racconta Ludwig racconta di un mostro a due teste affamato di purificazione uscito dalle viscere della migliore borghesia veneta.

Chi racconta Ludwig racconta di un processo e di due condanne a 27 anni di carcere.

Chi racconta Ludwig  racconta di 15 morti assassinati brutalmente, dal 1977 al 1984.

Dentro la storia di Ludwig c’è molto, forse troppo. C’è la retorica dei bravi figli di famiglia che diventano assassini. C’è Verona in quegli anni. C’è la questione spinosa sui confini della cronaca nera e sui doveri del giornalismo. C'è una coppia di serial killer italiani in italia. C’è un’ossessione (religiosa? pagana? umana?politica?) che deraglia in maniera incontrollabile. C'è una serie di lettere di rivendicazione degli omicidi inquietanti (che si fanno sempre più deliranti). C’è un rapporto morboso e una dipendenza omoerotica, allo stesso tempo negata e sublimata come amicizia, che trova sfogo solo nella violenza. C'è un "rogo di cazzi".C’è l’avvocato Niccolò Ghedini (per dire), coetaneo di Abel e Furlan e vicino agli ambienti giovanili della destra neofascista veronese, che li difende in tribunale assieme a Piero Longo. C’è la vita degli assassini e la morte degli assassinati. C’è il neonazismo e i movimenti di estrema destra dell’epoca (nonostante i due non fossero affiliati a nessun gruppo organizzato). C’è forse una verità, ma solo una delle molte. C’è il dubbio che se non ci fosse stato il caso non ci sarebbe niente di tutto questo.
Non è decisamente un paese per vecchi.

Alla libreria popolare di via Tadino c’era Monica Zornetta e a lei abbiamo posto alcune domande:
“Durante il procedimento giudiziario sono stati scartati, seguendo la linea della seminfermità di mente di Abel e Furlan, alcuni elementi interessanti per quanto riguarda il numero dei partecipanti agli omicidi: 3 furono i biglietti venduti a Furlan dalla cassiera dell’Eros Sexy Center di Milano; 3 secondo i testimoni gli uccisori dei frati; 4 persone addirittura quelle viste dal testimone dell’omicidio del sommelier padovano. Lei crede sia stata abbandonata una pista che forse avrebbe portato a una verità diversa?”
MONICA ZORNETTA: “Si, certo. Io sono certa che non sia assolutamente stata presa in considerazione questa pista. Volutamente o no, questo non lo so. Però effettivamente in più casi i testimoni hanno parlato di più di due persone in molti dei luoghi dei delitti. E lo stesso Abel, che ho intervistato in esclusiva e che racconta la sua verità nel mio libro, parla di un’organizzazione composta di 4,5 persone ai vertici e alcuni fiancheggiatori: una sorta di mostro di Firenze in senso veronese.”
“Crede che i giornalisti dell’epoca abbiano sbagliato contribuendo a creare attorno al caso quella confusione di cui Ludwig si è servito per nascondersi? Penso in particolare agli articoli sul docente di Brescia, il famoso “professor Computer” e al quotidiano La Notte.
MZ: “Certo, noi parliamo del docente di Brescia…certo, in quel caso là più che i giornalisti sono state delle deviazioni da parte dei magistrati. Posso dire invece che ci sono stati dei giornalisti, penso in particolare a Gianni Cantù, decano dei giornalisti veronesi, che hanno seguito dall’inizio alla fine il caso e che hanno sempre insistito per la tesi delle più persone presenti agli omicidi…certo le intenzioni e i percorsi seguiti dalla giustizia sono stati diversi.”
“Quale crede dovrebbe essere il ruolo dei giornalisti di fronte alle indagini della polizia?”
MZ: “I giornalisti di fronte alle indagini….non è facile rispondere a questa domanda perché ci sono dei segreti a cui ovviamente anche noi dobbiamo sottostare….certo è quello di scavare comunque, di raccontare una verità. Io con  Ludwig. Storie di fuoco, sangue, follia  ho cercato di raccontare alcune delle diverse verità che stanno dietro alla vicenda: una verità storica, che è quella processuale, che ha visto i due ragazzi uscire come gli unici due condannati e responsabili della vicenda Ludwig; ma ho voluto dare spazio anche a Wolfgang Abel, uno dei serial killer, con la sua verità; e poi ho voluto vedere se dal punto di vista psichiatrico ciò che era emerso, le due verità emerse, potessero essere ancora valide, e ne uscita una terza verità ancora…”
“Quanto conta la capacità di raccontare una storia come questa e quale lei crede che sia l’effetto da raggiungere?”
MZ: “Il linguaggio che si utilizza, insieme alla serietà della ricerca, alla ricerca approfondita, all’obbiettività, penso sia fondamentale. In Ludwig. Storie di fuoco, sangue, follia c’è un linguaggio più vicino al romanzo che a quello dell’inchiesta, però c’è un distacco che credo sia un po’ uno dei punti di forza del libro. Ecco, credo sia necessario  rimanere distaccati, essere come artisti che dipingono un’immagine che vediamo, riprodurla quanto più fedelmente possibile cercando di usare un linguaggio semplice. Io sono una fautrice della semplicità, attraverso la semplicità si arriva a tutti e il mio obiettivo è quello di far conoscere le cose ai lettori, una delle tante verità. Se ci fosse una sola verità sarebbe meglio però non fa parte probabilmente di questa vita.”
“Dov’è l’equilibrio secondo lei tra cronaca nera e informazione politica? È possibile un giusto mezzo tra gli ossessivi servizi su l’omicidio di Sarah Scazzi e un giornale fatto solo di informazione politica, specie se ci sono degli omicidi ancora a piede libero?”
MZ: “Qua apriamo il capitolo sulla spettacolarizzazione, sull’informazione sanguinolenta che oramai ci ha assuefatto tutti… ecco, probabilmente viene utilizzata per coprire un vuoto d’altro, un vuoto magari anche di responsabilità e coscienza politica. In effetti, anche basandosi su alcuni studi che aveva fatto l’osservatorio di Pavia era emerso che i telegiornali in Italia sono quelli in cui c’è il maggior numero di servizi di cronaca nera in assoluto. Tutto diventa un tam-tam  ripetuto in modo tale che sia il delitto che la vittima le persone le sentano quasi come dei familiari, delle persone molto vicine; secondo me questo proprio per coprire dei vuoti in altre sfere delle nostre vite, della nostra società e della nostra cultura, anche perché di vuoti culturali ne abbiamo effettivamente tanti."



Furlan ora è libero, lavora, si è pentito, è recuperato alla comunità. La sua mente è riuscita a superare quell’orrore. Abel no. Abel continua a negare, Abel non è libero. Non li avrebbero mai beccati se non li avessero presi con le taniche di benzina in mano mentre cercavano di dare fuoco alla discoteca di Castiglione delle Stiviere con 300 persone dentro. 
Gott Mit Uns.






Il primo omicidio compiuto da Wolfgang Abel (Dusseldorf, 1959) e Marco Furlan (Padova, 1960)  risale al 25 agosto del 1977 quando il senzatetto Guerrino Spinello venne bruciato nella sua Fiat 126 a Verona. Il 17 dicembre 1978 a Padova venne ucciso con più di 30 coltellate il sommelier omosessuale Luciano Stefanato. Il 12 dicembre 1979 a Venezia la vittima fu il tossicodipendente ventiduenne Claudio Costa. Nel 1980 Abel e Furlan uccisero a colpi di ascia e di martello la prostituta 52enne Alice Maria Baretta a Vicenza. Il 25 novembre dello stesso anno i due rivendicarono per la prima volta questi delitti col nome di Ludwig, inviando una lettera a Il Gazzettino. Furono anche accusati di avere dato alle fiamme, il 25 maggio 1981, la torretta di Porta San Giorgio a Verona, una piccola struttura abbandonata facente parte delle vecchie fortificazioni austriache, divenuta ricovero per sbandati e senza casa . Nell'incendio morì il diciassettenne Luca Martinotti, che stava trascorrendo la notte lì con un altro amico, rimasto gravemente ferito. Nonostante la rivendicazione da parte di Ludwig in un comunicato a La Repubblica, per questo delitto Furlan e Abel furono assolti. Il 20 luglio 1982 uccisero a martellate Gabriele Pigato e Giuseppe Lovato, entrambi frati settantenni del Santuario della Madonna di Monte Berico a Vicenza perché "tradivano il vero Dio". Il 26 febbraio 1983 uccisero a Trento il sacerdote don Armando Bison, che venne trovato con un punteruolo sormontato da un crocefisso conficcato nel cranio. Il 14 marzo 1983 diedero fuoco al cinema a luci rosse Eros di Milano, dove morirono sei persone e trentadue rimasero ferite. L'8 gennaio 1984 appiccarono un incendio alla discoteca Liverpool di Monaco; nel rogo morì una persona (una cameriera di origine italiana che lavorava nel locale) e altre sette rimasero ferite. Il 4 marzo 1984, mentre cercavano di dare fuoco con due taniche di benzina alla discoteca Melamara di Castiglione delle Stiviere vennero scoperti e arrestati. Dalle perquisizioni in casa dei due emerse come essi fossero i responsabili dei volantini di rivendicazione dei delitti. Al processo che seguì alle indagini, in seguito a perizia psichiatrica, ai due fu concessa la seminfermità di mente, grazie alla quale evitarono l'ergastolo. La condanna definitiva fu di 27 anni a testa. Nel febbraio del 1991, poco prima della definitiva condanna in cassazione, Furlan riuscì a scappare. Fu catturato, grazie alla segnalazione di una famiglia di turisti veneti in vacanza, nel maggio del 1995 a Creta, dove viveva sotto falso nome e riportato in ItaliaIl 12 novembre 2010 Furlan viene rimesso in libertà in seguito al suo comportamento positivo in libertà vigilata