La copertina in brossura dà da subito un senso di
decorosa umiltà: come sfondo tre rettangoli di colori diversi di dimensione
decrescente dall’alto verso il basso, schiacciati dall’enorme titolo bianco che
sembra voglia saltare fuori dalla copertina e venirti a palpare le tempie,
gridando “NON VUOI LEGGERMI???? LEGGIMI!!!!”, anch’esso a caratteri decrescenti
(la prima parola nel rettangolo più grande, la seconda in quello di dimensioni
minori, il sottotiolo e la firma degli autori, in corsivo, in quello più
piccolo). Sono 912 pagine.
Novecentododici.
Un oggettino simpatico.
Questo è come appare Mani pulite: la storia vera vent’anni dopo. Un mattone che ha come
soggetto una indagine giudiziaria, i commenti attorno a essa, il suo
svolgimento e ciò che ne è conseguito, raccontata attraverso numeri e atti
processuali.
Credo che ne abbiano venduti solo il giorno della
presentazione una cinquantina in un’ora.
Ecco, è da qui che vorrei partire: tutte quelle
persone che erano lì e hanno comprato quel libro – e le altre cento che c’erano
credo che non lo abbiano acquistato esclusivamente per esaurimento delle copie
– non erano alla Feltrinelli Express della stazione centrale di Milano semplicemente
per comprare un libro. Erano lì per una ragione molto diversa: il presenziare a
un rito.
Dal fondo della sala, mentre dietro a un cordone di
sicurezza si agita una pappa umana di un centinaio di persone, si manifestano
tre figure. Sono uscite dall’ascensore accolte allo stesso momento dal
campanello del piano e da un grido strozzato di felicità. Il miracolo è
avvenuto: la trinità si è consustanziata come promesso. Salutano a mezza bocca
e si dirigono verso il centro del locale: il loro linguaggio del corpo vuole
comunicare professionalità, integrità e determinazione. Salgono sul palco, sorridono:
il rito ha inizio.
Non mi interessa qui parlare di Peter Gomez, che
professionalmente è quello che stimo di più, né di Gianni Barbacetto (che,
poverino, non è stato quasi degnato di uno sguardo dalla massa dei fedeli:
nessuno gli ha chiesto uno sputo di autografo, scarsi perfino gli applausi al
suo intervento. Non erano lì per lui e glielo hanno voluto far notare), mi interessa
invece un’analisi approfondita della forma di Marco Travaglio.
Non affronterò i contenuti dei suoi interventi, ma
il modo in cui egli le porta avanti, cosa che credo essere fondamentale nel
successo del suo personaggio e nella creazione di una vera e propria chiesa di
seguaci che serba nei suoi confronti una riverenza quasi sacrale, sicuramente
non paragonabile a quella di qualunque altro giornalista vivente (Santoro compreso)
e superiore a quella di molti politici. Il mio scopo è in definitiva di mettere
in luce e affrontare l’innegabile virtù dell’actio di Travaglio, complice, a
mio pare, del senso di affidabilità che i suoi articoli e le sue apparizioni
televisive riescono a produrre nei suoi sostenitori e dell’aura ieratica che lo
ammanta.
La prima cosa da notare è la routine dei movimenti, da
attore: Travaglio replica da anni una stessa serie di azioni con costanza tale
da essere riuscito a renderla caratteristica e identificatrice. Tale scelta
oltre a far percepire con maggiore incidenza la sua presenza “scenica” –non a
caso è nelle sue apparizioni a teatro, ancora prima che in televisione, che
riesce a eccellere- e quindi a mediare immediatamente nello spettatore un
sentimento di appagamento per il trovarsi di fronte al proprio idolo (“è
proprio lui, è proprio lui”, è la reazione inconscia al riconoscimento dei
tratti caratteristici), lo mette a proprio agio e lo invita a fidarsi e a
sentirsi confortato dalla persona che ha davanti a sé.
Tipico, specie nelle presentazioni più informali, è
il suo togliersi la giacca: la camicia (solitamente bianca) è infatti uno dei
tratti che lo identificano e che non a caso ama più esporre per mostrarsi umile
e elegante allo stesso tempo. In altre situazioni –quasi sempre a Anno Zero o
in televisione- utilizza una giacca, ma anche qui la sua preferenza va verso tessuti
semplici e colori autunnali molto modesti: la sua mise canonica è quella con la
giacca verde “smorto” che ha indossato nella sua memorabile apparizione al
Satyricon di Daniele Luttazzi, giacca verde che ricorda nello spettatore ciò che appunto
egli è stato e propone quindi un messaggio di coerenza e integrità.
In ogni caso, giacca o non giacca, è solo quando
raggiunge la sedia che Travaglio inizia davvero a fare sul serio: la sua più
grande abilità è quella di riuscire a ridurre i movimenti al di sotto
dell’essenzialità e a raggiungere con questo minimalismo una maggiore carica
espressiva. Tali movimenti sono raggruppabili in due grosse tendenze: attesa (o
ascolto) e offesa (o declamazione). Nella prima situazione è un altro a
prendere la parola, a parlare, a svolgere un ragionamento intorno a un punto,
ciò nonostante in questa fase Travaglio non rinuncia alla comunicazione: le
gambe sono incrociate l'una sull'altra, le mani si uniscono sopra al ginocchio
con il quale fa oscillare leggermente il piede della gamba accavallata, le
spalle sono tese per permettere questa postura. La testa e lo sguardo, unici,
sono fissi: rivolti verso chi sta parlando, se è egli è un avversario o se non
è d’accordo con ciò che sta dicendo; gelidamente bloccati a fissare un punto a
mezza altezza se la cosa non gli interessa o se ritiene che lo si stia citando
o chiamando in causa. Con questo atteggiamento di attesa, appunto, Travaglio cerca
di comunicare allo spettatore una dignità e una professionalità che vuole
essere tanto più convincente quanto appare sguaiata o urlata quella del
personaggio a cui è contrapposto (il mondo di Travaglio “in scaena” è manicheo,
vive di contrapposizioni – che poi possono pure scomparire o attenuarsi, ma
questo solo dietro le quinte-; nemici canonici, o comunque coloro che emergono come
tali dalle trasmissioni televisive e negli articoli, sono in ordine sparso:
Filippo Facci, Maurizio Belpietro, Pierluigi Battista, Andrea Capezzone, Vittorio
Sgarbi, Daniela Santanché, Alessandro Sallusti, Cuordipietra Famedoro). Tale
passività riesce inoltre a suggerire la
volontà di scagliarsi all’attacco, di ribattere parola per parola le parole dell’avversario
parolaio, allude a come siano in serbo chissà quante e quali risposte da
servire con la mano sinistra, sogghignando a denti stretti (questo sia nel caso
che prenda la parola, sia nel caso poi non la prenda). Nella fase di attacco, Marco
Travaglio mostra tre diversi atteggiamenti: la risata di scherno, volta a
stimolare la stessa reazione nello spettatore (a essa possono essere aggiunti
movimenti con le mani come a dire “ma pensa te, ma guarda un po’ questo”);
l’indignazione, che si produce con rapidi movimenti agitati del corpo,
inarcamento delle sopracciglia e rotazione degli occhi; e infine la
requisitoria. Quest’ultima è quella più popolare, perché è quella con la quale
porta avanti i suoi editoriali televisivi nelle trasmissioni di Santoro, ma è
usata anche durante le presentazioni. Oggetto fondamentale per la requisitoria
è il supporto di lettura, libro o foglio di carta (che deve essere ben
percepibile e tradizionale; quindi nessun tipo di I-Pad o simili, al massimo un
vecchio cellulare), la consultazione del quale aumenta la solidità e
l’autorevolezza di quanto viene pronunciato (il messaggio per il pubblico è:
questi sono dati scientifici, inoppugnabili, inattaccabili, a voi sconosciuti
fino al momento in cui io ve li ho rivelati, li ho sotto mano proprio in questo
momento. Carta canta). Esso viene tenuto con ambo le mani, le quali restano in
questo modo ferme (esse sono utilizzate solo come commento di qualche battuta o
per “creare” un applauso). I suoi movimenti, seppure scarsi o apparentemente
assenti, sono il risultato di una strategia comunicativa molto fine che mira a
valorizzare ciò che viene detto e che carica il discorso di messaggi persuasivi
che influenzano in maniera decisiva la ricezione delle sue affermazioni.
Anche la mimica facciale è utilizzata in tal senso.
In questo caso va sottolineato in primis il movimento autoassertivo che compie
soprattutto durante i passaggi televisivi: nei suoi editoriali a Servizio
Pubblico è molto facile notare un leggero dondolio della testa, volto a
convincere lo spettatore della verità di ciò che sta dicendo. Con esso,
Travaglio viene così con un unico movimento ad affermare a sé stesso e al
pubblico la verità della propria parola e allo stesso tempo utilizza questo
stratagemma per dare ritmo al discorso (massimo è l’utilizzo di tale
stratagemma durante le battute, come offrendo un supporto in più al pubblico
per la loro risata). Oltre a ciò, Travaglio sfrutta anche lo sguardo -e in
particolare la maggiore o minore apertura degli occhi e l’inclinazione delle
sopracciglia- per convincere lo
spettatore: stupore o indignazione, sarcasmo o dubbio reale, smarrimento o
rabbia, tutte le reazioni che egli sceglie di incarnare attraverso la propria
mimica facciale, vengono esternate, esternando così anche lo stimolo a quella
che è la reazione desiderata nel pubblico. È un vecchio stratagemma del
melodramma e del cinema melodrammatico: viene mostrato sulla faccia dei
protagonisti e messo ben in evidenza quello che si suppone essere la reazione
suscitata in chi guarda; serve a creare pathos e a stimolare la comprensione e
l’appoggio dello spettatore che si identifica in lui.
Altro punto fondamentale è il già menzionato utilizzo
del ritmo. Qui Marco Travaglio è un vero fenomeno: la sua recitazione è un
mirabile utilizzo di pause, impennate, rallentamenti, sottolineature vocali; egli
riesce attraverso una modulazione ritmica a portare avanti una tesi mostrando
il contenuto e nascondendo dietro a esso lo stile che lo contiene e che
rappresenta il vero motore del consenso. Il suo marchio distintivo è il “fulmen
in clausola”: la battuta, il gioco di parole inatteso, il paradosso, tutti
questi stratagemmi del comico sono dosati in maniera eccellente e esplodono
solitamente al termine di un capoverso del suo editoriale. Le parole devono
venire scandite in maniera rapida ma precisa, e devono farlo seguendo un
movimento che alterna monotonia (e monodia) a picchi di intensità: la prima
domina le parti del discorso che si vogliono più oggettive, inattaccabili e
“noiose”: i dati, i riferimenti e le sentenze; i secondi si verificano in
occasione delle battute. Rallentamenti minimi e una maggiore ritmicità dell’eloquio
si hanno laddove egli utilizza in maniera antifrastica e ironica le parole di
qualcuno con la volontà palese di ridicolizzarlo. Anche l’utilizzo del ridicolo
infatti risponde a una esigenza di potenziamento della propria figura:
distruggendo gli altri, Travaglio si erge come fine umorista (al di là di
esserlo o meno) e abile pensatore, in grado di schiantare al suolo nel ridicolo
chiunque voglia solo con l’effetto delle proprie parole. Non è strano udire
dalla sua bocca un uso molto disinvolto del vituperio, della caricatura,
dell’appellativo, della canzonatura che parte dai difetti fisici, del nomignolo,
strumenti classici della parola comica corrosiva, che però nascondono, come
insegna Freud, un’esigenza di attaccare per non essere attaccato. E di acredine
se ne avverte molta in alcune di queste battute, nelle quali spesso vuole
dimostrare un’ulteriore superiorità (e rinsaldare il legame con il proprio
pubblico, in grado di cogliere senza problemi tutte le allusioni personali) e
una ulteriore autoaffermazione, non nominando neppure il riferimento, come a
negare allo spernacchiato anche la dignità del proprio nome: il mashato,
Angelino Jolie, Polito El Drito, e così via.
Vorrei concludere questa breve rassegna delle
capacità formali dell’attore Travaglio con quella che secondo me è la
caratteristica principale del suo successo: la sua sensualità. Travaglio è
sexy. Lo è sia per doti naturali che per modo di proporsi, ed è questa, credo, la
ragione principale delle folle oceaniche che lo vanno a vedere (non a
ascoltare) parlare. Sull’uno e ottanta, brizzolato, capelli ricci che non
mostrano evidente stempiature, magro e tonico, occhi azzurri cristallini e
profondi, due lame: un fascino maturo che sprizza sensualità a ogni ammiccata,
a ogni risatina, a ogni abbassamento di ciglio ( e sono molti). Travaglio non
vende i libri, vende se stesso. Sempre. Anche dietro ai suoi editoriali
cartacei, vedi il suo corpo, lo immagini nudo, ti cibi di lui. Se il Verbo si è
fatto Carne, con lui è la Carne a farsi Verbo: è la Carne che prende la parola
e celebra la propria fisicità. Ecco perché quelle presentazioni di libri e quelle
apparizioni televisive, assumono costantemente la forma della Messa: masse di
persone (non a caso più donne che uomini, ma ciò non cambia, egli in realtà è
sex symbol per entrambi) con la bava alla bocca, in preda all’eccitazione,
all’erezione, con le mutandine bagnate, pronti a applaudire, a urlare, a
ridere, a fare tutto ciò che è necessario fare per compiacerlo, per compiacere
il loro oggetto del desiderio. L’incomunicabile oggetto del desiderio. Lui li
osserva esplodere nel loro eccitamento e inizia anche lui a godere, esplode, si
fa tonante, ride Omerico del loro e del proprio piacere. È un’orgia. Egli è
allo stesso tempo il bravo ragazzo della porta accanto, l’uomo elegante e
brillante che ti tromba dopo averti sedotto, portandoti a cena in un locale
“giusto”, il genietto simpatico dalla battuta azzeccata, l’intellettuale
impegnato – ma senza colore politico –
che ti rivela le verità che non conoscevi, l’illuminista che lotta contro il
male e ti conduce fuori dalla caverna, Voltaire e George Clooney assieme; e il
tuo labbro, le tue labbra, pendono sempre più giù, cadi ipnotizzato-a;
compreresti tutto da lui, perfino un libro che non leggeresti mai.
La mia trattazione di queste sue qualità è senza
dubbio insufficiente, ma un’analisi più approfondita avrebbe richiesto maggiore
spazio. Ho voluto solo accennare a alcuni aspetti di quella che ritengo essere
una meravigliosa macchina retorica, un vero fenomeno della recitazione, un
genio teatrale appena disceso dal carro di Tespi. Un giornalista, vero, anche
un giornalista; con le sue abilità, le sue tecniche e il suo stile. Ma è
appunto proprio il suo stile che lo ha trasformato in quello che egli è, non
come ci si illude di pensare, il suo “raccontare i fatti”, non il suo
“archivio”. Anche quello, certamente. Ma la chiave del successo dell’uomo, ciò
che lo ha portato a essere celebrante e celebrato di un rito laico, non va
dimenticato, risiede in queste abilità e nella sua strategia persuasiva. Non
c’è niente di male in questo, ma va ricordato. Credo serva a qualcosa, credo
serva almeno a questo: a mantenere la lucidità, a non finire come un fedele
acefalo con gli occhi a spirale e le mutandine bagnate; a non uscire dalla
stazione centrale di Milano con un mattone di 912 pagine in mano che non
riuscirai mai a leggere e 19 euro e sessanta in meno, interrogandosi sul perché.